“I timori degli Usa verso la nuova via della seta sono dovuti al fatto che non è solo un grande piano infrastrutturale, ma di nuova globalizzazione. E rappresenta una ridefinizione delle modalità delle relazioni internazionali di base Pechinocentrica”. È l’analisi di Filippo Fasulo, coordinatore scientifico del CeSif (il Centro studi sull’Impresa della Fondazione Italia-Cina), intervistato da LaPresse sulla irritazione degli Usa e l’agitazione della Ue dopo l’annuncio di una adesione dell’Italia alla Bri, la Belt and Road Initiative cinese, nota come ‘nuova via della Seta’. Quali sono per le imprese italiane le opportunità offerte dalla nuova via della seta? “Una maggiore integrazione con l’economia cinese nelle relazioni commerciali. Gli investimenti cinesi in opere infrastrutturali italiane, in particolare i porti di Trieste, Venezia, Genova. Le opportunità di investimenti congiunti fra aziende italiane e cinesi in paesi terzi, soprattutto l’Africa”. Perché allora le paure di Usa e Ue? “Nel contesto della guerra commerciale, vista come una competizione strategica, soprattutto in campo tecnologico fra Cina e Stati Uniti, nel medio e lungo periodo, l’adesione dell’Italia alla nuova via della seta è percepita come una maggiore vicinanza con Pechino. Gli Usa temono poi che l’Italia, primo membro del G7, possa dare un supporto politico decisivo al piano cinese. Questo avrebbe una valenza politica internazionale molto elevata. Inoltre l’accesso che l’investitore cinese nel settore delle tlc e delle reti infrastrutturali può avere alle questioni di sicurezza interna italiana dagli americani è avvertito come un pericolo. Per quanto riguarda la Ue, il timore è che gli investimenti cinesi in Europa siano finalizzati alla acquisizione di tecnologia e possano mettere in difficoltà le aziende continentali non avendo i livelli di trasparenza dei progetti europei e delle regole dell’Unione sugli appalti. Per questo motivo è già stato contestato l’investimento di Pechino per la rete ferroviaria da Belgrado a Budapest”. Anche in Italia c’è diffidenza e cautela verso la Cina… “Pechino sta alzando il livello della sua produzione industriale con piani come Made in China 2025 che possono mettere in discussione il ruolo europeo con innovazione, produzioni automatizzate ad alto valore aggiunto e tecnologie produttive avanzate. E la Ue chiede la reciprocità , cioè l’accesso per gli investitori europei a quei settori che in Cina che sono ancora chiusi per loro. Per quanto riguarda il nostro Paese, però, va detto che una prospettiva dell’Italia come piattaforma logistica privilegiata per le merci di Pechino in Europa è stata paventata da ogni esperto di Cina in Italia e anche da molti politici negli ultimi 15 anni”. Le aziende italiane che fanno affari con la Cina cosa sanno della via della seta? “Le imprese ci ragionano, ma non è poi così semplice capire cosa di cosa si tratti: è un piano che si sta ancora formando. E questo ha anche a che fare con una certa vaghezza che è tipica cinese. La Belt and Road Initiative non è solo infrastrutturale, ma riguarda investimenti industriali in tanti settori e non si limita all’Eurasia. Ci sono accordi anche con Paesi latino americani e dell’Africa occidentale, come con l’Oceana”. Che ruolo svolge la Fondazione Italia Cina rispetto alle istituzioni italiane su questo tema? “Fondazione Italia Cina e Camera di Commercio Italo Cinese sono i coordinatori dell’Italian Council e i referenti unici delle attività promosse con i partner internazionali e il CCPIT, il China Council for the Promotion of International Trade, promotore del Silk Road Business Council. Si tratta di un organo di cui fanno parte soggetti istituzionali e di promozione economica operanti nei Paesi che geograficamente si trovano lungo l’antica via della seta e che ha lo scopo di individuare occasioni di collaborazione nell’ambito del programma One Belt One Road”.