Perché aumentare l’aliquota di contribuzione

Gli approfondimenti sulla previdenza di PAOLO LONGONI

Fra gli argomenti in discussione all’interno degli organismi della nostra Cassa c’è l’ipotesi (ben più di un’ipotesi, a dire il vero) di aumentare progressivamente l’aliquota del contributo soggettivo da imporre agli iscritti.

Mi sembra più che opportuno trascrivere qui testualmente un intervento del prof. Alberto Brambilla pubblicato il 30 settembre scorso, che è redatto in materia contributi INPS, ma che comunque costituisce uno spunto importante di riflessione anche per le gestioni delle casse previdenziali privatizzate. L’Autore mi scuserà per la trascrizione testuale; qualche commento viene fatto in calce.

“Il ministro Giorgetti rispondendo a un Question Time sulla situazione pensionistica in Italia ha affermato che “nessun sistema pensionistico è sostenibile in un quadro demografico come quello attuale italiano”. A parte la gravità dell’affermazione, per giunta fatta e reiterata (anche al meeting di Rimini di CL) da un Ministro della Repubblica, se fossi un giovane che inizia oggi a lavorare mi chiederei perché mai versare i contributi all’INPS se questa tra 20/25 anni, prima che io vada in pensione, è già in bancarotta; ed effettivamente se lo domandano molti miei studenti e non solo. Certo, profetizzare il default del sistema pensionistico è un grande assist al lavoro nero.

Parafrasando la frase del Ministro potremmo dire con una notevole certezza attuariale che il sistema è sostenibilissimo ed è addirittura in attivo ma “nessun sistema pensionistico è sostenibile con un elevato livello di decontribuzione come quello attuale italiano”. Perché è ormai ritornato di moda negli ultimi 15 anni offrire decontribuzione a tante platee? Anzitutto, e mi si perdoni il pensar male, per accaparrarsi il maggiore consenso politico: è molto bello fare i buoni con i soldi degli altri (e gli altri sono i pensionati che secondo la Meloni sono “nababbi”, come li indicavano Conte e Di Maio ai tempi delle pensioni d’oro). Promettere sgravi a redditi bassi, donne, disoccupati, Sud, apprendisti e chi più ne ha più ne metta, nella testa dei politici nostrani porta voti. Poi, per due altre ragioni, più nobili ma poco corrette: far aumentare l’occupazione e far aumentare i redditi in busta paga.

Ma è una strada giusta? Per quanto riguarda la prima ragione (aumento dell’occupazione), i dati sono sconfortanti e dovrebbero essere attentamente studiati dai politici. Per compensare l’insufficiente livello di sviluppo di alcune aree del Paese, in particolare delle otto regioni meridionali, per oltre 20 anni sono stati in vigore gli sgravi contributivi totali (non quelli proposti dal governo Meloni ma totali!) che, tuttavia, sulla base delle statistiche occupazionali, non hanno prodotto in vent’anni nuova occupazione o sviluppo. Nel 1994, a conclusione di una procedura d’infrazione, in quanto questi sgravi erano considerato aiuti di Stato, il Commissario Karel Van Miert concluse un accordo con l’allora governo Berlusconi e, in particolare, con il Ministro del Bilancio Giancarlo Pagliarini con il quale tali sgravi furono eliminati progressivamente dal 1995 al 2002. Questi sgravi contributivi non solo non hanno prodotto vantaggi competitivi, ma hanno ritardato lo sviluppo delle 8 regioni del Sud esattamente come le altre assistenze “drogando” l’economia meridionale, creando solo poca occupazione di sussistenza che si è dissolta quando gli sgravi sono stati vietati. Miliardi di euro sperperati! Lo stesso è accaduto con gli sgravi contributivi resuscitati dal governo Renzi nel triennio 2015-2017. Costo 12 miliardi di euro (quasi il doppio secondo stime di Tito Boeri, allora presidente INPS): l’occupazione è aumentata nel triennio di circa 500mila unità che poi, finiti gli sgravi, si sono perse negli anni successivi. La prima lezione è che l’occupazione la creano il ciclo economico, la domanda aggregata e un Paese che ha uno sviluppo sostenuto, non lo sconto sui contributi.

La seconda ragione è quella di aumentare i redditi in busta paga. Come abbiamo visto dai dati OCSE, in effetti, i salari italiani sono diminuiti in valore reale di circa il 6,9% rispetto al periodo pre-COVID. I salari da noi sono mediamente bassi, ma sostanzialmente per un appiattimento verso il basso: infatti, la differenza con l’Europa sui salari bassi è minima, mentre per quelli alti è notevole e, inoltre, quelli italici sopra i 35-40 mila euro sono falcidiati dai contributi sociali e dalle tasse. Ma per aumentare le buste paga è giusto mettere a carico della collettività che paga le tasse una parte dei salari? Certamente no! I salari li devono pagare le attività produttive e devono essere aumentati dalla contrattazione tra sindacati e datori, non dallo Stato. Ciononostante, l’attuale esecutivo vuole insistere anche per il 2025 su una serie di decontribuzioni tanto lunga che occorrerebbe una pagina per elencarle tutte; tra queste: redditi fino a 25mila euro, sgravi per il Sud, per donne svantaggiate, madri (addirittura finché il figlio più piccolo arriva a 18 anni, una follia), disoccupati, apprendistato, stagionali, giovani e NEET, percettori di NASpI, cassa integrazione ordinaria e straordinaria, ADI, SFL (supporto formazione e lavoro), part-time, agevolazioni per le donne vittime di violenza, etc.

Ma quanto ci costa la decontribuzione? Secondo l’Osservatorio INPS sulle agevolazioni contributive, “complessivamente il valore economico delle agevolazioni contributive (esoneri e sgravi) per i dipendenti del settore privato è risultato nel 2021 pari a circa 20 miliardi di euro, corrispondenti al 13,5% del totale dei contributi sociali dovuti; nel 2022 esso è risultato pari a 23,7 miliardi, corrispondenti al 14,6% dei contributi sociali dovuti”. Per il 2024 la stima (che supera di gran lunga quella diffusa da organi di governo) è di circa 25 miliardi. Sorpresa! In 3 anni il mancato gettito per l’INPS supera i 68 miliardi; ne mettiamo altri 25 anche per il prossimo?

Ma perché i governi puntano sulla decontribuzione, anziché su sgravi fiscali, magari sui buoni pasto, sui buoni trasporto (che sarebbe ora inserire), sul welfare aziendale, sui premi di produzione, sulla defiscalizzazione degli straordinari o degli aumenti contrattuali 2024/25? Semplice: se operano sul fisco, le entrate si riducono subito nell’anno; se anziché gli sgravi contributivi del 2023 si fossero fatti sgravi fiscali, avremmo dovuto contabilizzare oltre 23 miliardi di mancate entrate con pesanti riflessi sul bilancio pubblico e sul Patto di Stabilità. Facendo sgravi contributivi è come firmare una cambiale fuori bilancio: un pagherò che non ha effetti contabili sul bilancio annuale. E così si è sempre proceduto; ma prima o poi i nodi vengono al pettine e i disastri si cominciano a pagare. Se nel 2008 per le decontribuzioni lo Stato trasferiva all’INPS meno di 10 miliardi, lo scorso anno ne ha trasferiti 31,55 che aumenteranno sicuramente con la Legge di Bilancio per il 2025: un’enormità! Sulla decontribuzione sia la Banca d’Italia sia la Commissione UE hanno esposto le loro grandi preoccupazioni per la tenuta dei conti pensionistici.

Forse, qualche riflessione sarebbe utile e il governo del merito dovrebbe smetterla di beneficiare i pensionati che non hanno mai pagato “rubando” (questo è il verbo giusto caro Giorgetti) i soldi ai poveri ottantenni che hanno sempre fatto il loro dovere”.

L’esortazione del prof. Brambilla, mutatis mutandis, può essere facilmente assimilabile alla situazione segnalata recentemente dal Ministero del Lavoro alla nostra Cassa: un basso livello di contribuzione (va ricordato che l’aliquota base in CNPR è del 15%) provoca due distinti effetti sul futuro attuariale:

1)      Produce un reddito di sostituzione assai basso, non tale da garantire una adeguata     sussistenza ai beneficiari delle prestazioni;

2)      Produce una tensione nel saldo previdenziale (ed anche nel saldo generale) che riduce i margini del saldo stesso al di sotto dell’unità già dal 2033.

Se è vero che l’incremento del solo contributo soggettivo produce (ma a medio/lungo termine!) anche un incremento delle prestazioni, e dunque non ha un effetto pieno sul miglioramento degli equilibri, è altrettanto vero che i richiami del Ministero, letti attentamente, sono diretti a segnalare la necessità di migliorare il saldo previdenziale e il tasso di sostituzione.

E dunque, in entrambi i casi, a incrementare le entrate contributive.

Sembra perciò coerente e diretta nel senso giusto la manovra di aumento, oltre tutto in misura assai ridotta, del contributo soggettivo, che è l’unica in grado di produrre entrambi gli effetti.

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