Gli approfondimenti sulla previdenza di PAOLO LONGONI
La pensione è una rendita permanente corrisposta ai lavoratori o ai loro familiari da parte dello Stato o di appositi enti pubblici o privati al raggiungimento di una determinata età ed in relazione agli anni di servizio prestati, ovvero al verificarsi di altre condizioni come il decesso o l’invalidità; costituisce un fondamentale elemento di equilibrio sociale, diretto a sostenere i soggetti e le famiglie che, non essendo più in condizioni di poter lavorare e produrre reddito, in mancanza della prestazione pensionistica potrebbero scivolare nell’indigenza.
Da alcuni decenni, tuttavia, il dibattito che si è aperto sul tema si fonda principalmente sulla insostenibilità del volume delle prestazioni rispetto alla capacità delle gestioni previdenziali.
Uno dei motivi collegati alla crisi di sistema è certamente quello della demografia: negli anni Sessanta la popolazione italiana cresceva mediamente di 500.000 persone all’anno; la crescita demografica si è stabilizzata sulle 300.000 unità negli anni Settanta per poi scivolare lentamente sulla crescita zero degli anni Ottanta e presentare il primo saldo negativo fra nuovi nati e deceduti nel 1993; a partire dall’anno 2020 i saldi negativi sono di circa 300.000 unità all’anno.
La popolazione diminuisce, e contemporaneamente aumenta la durata della vita media: e poiché il sistema delle pensioni si fonda sulla ripartizione, in virtù della quale con la riscossione dei contributi dei lavoratori attivi vengono pagate le pensioni di chi è in quiescenza, sia nel lavoro dipendente pubblico e privato che nel lavoro autonomo si osserva da tempo una decrescita degli attivi che con i loro versamenti contributivi devono coprire le prestazioni pensionistiche, le quali oltretutto hanno durata ben superiore rispetto al passato.
L’effetto è reso ancor più incisivo dalle metodologie di calcolo: il sistema generalizzato sia nel pubblico che nel privato che nel settore del lavoro autonomo prevedeva fino a pochi anni fa un calcolo basato sui redditi percepiti da lavoratore attivo, del tutto sganciato dal montante dei contributi versati; e solo da pochi anni – nella generalità, da un ventennio circa – il calcolo si è trasformato ad un sistema di capitalizzazione dei contributi versati, applicato però sempre in forma graduale.
Le pensioni si sono dunque manifestate, in via consuntiva, come uno dei casi più eclatanti di privilegio; il nostro Paese, cullandosi nella illusione di una crescita senza fine, guidato da classi politiche miopi e non immuni da tentazioni clientelari arrivò al punto di concedere:
- Ai dipendenti pubblici di sesso femminile con figli di andare in pensione dopo 14 anni e sei mesi di lavoro; e se orfane di dipendenti pubblici dopo 12 anni e sei mesi;
- Ai dipendenti pubblici di sesso maschile o di sesso femminile senza figli dopo 19 anni e sei mesi di lavoro;
- Ai dipendenti pubblici e privati di andare in pensione a 60 anni;
- Ai dipendenti pubblici ex combattenti e reduci della Seconda guerra mondiale, ed anche ai familiari di ex combattenti e reduci di andare in pensione con un abbuono di dieci anni di anzianità contributiva;
- A tutti in maniera generalizzata di andare in pensione comunque al compimento di 60 anni per gli uomini e 55 anni per le donne:
- Nel lavoro autonomo, le Casse previdenziali dei professionisti consentivano il pensionamento al raggiungimento di 35 anni di anzianità contributiva, qualunque fosse l’età.
Il risultato, nel mondo del lavoro dipendente, è stato di originare un flusso in uscita di milioni di lavoratori che, anche con età di poco superiore ai trent’anni, hanno beneficiato di una pensione per trenta o quaranta anni; oltretutto calcolata in base ai redditi e non ai contributi versati.
E nel mondo del lavoro autonomo si è prodotto un importante effetto di pensionati giovani, soprattutto nelle professioni cui si accedeva con il solo diploma: entrando nel sistema a 20 anni, il lavoratore aveva la prospettiva di andare in quiescenza – ma in realtà senza cessare affatto la prestazione lavorativa – ad un’età media di 55 anni.
Il calcolo retributivo, poi, che generalmente ed in via approssimata prevedeva una pensione pari al 70/80% degli ultimi redditi goduti, ha prodotto una crescita esponenziale delle uscite per prestazioni.
Alcuni esempi, formulati dall’ufficio studi di Confartigianato, hanno messo in evidenza che:
- Lavoratori del mondo pubblico arrivavano a percepire la pensione per almeno il triplo degli anni di contribuzione, accumulando prestazioni in ragione di oltre il 600% di quanto versato;
- Lavoratori del mondo privato arrivavano a percepire la pensione per una durata di trenta anni, accumulando prestazioni in ragione di oltre 250% di quanto versato;
- Lavoratori autonomi arrivavano a percepire la pensione per almeno venticinque anni, accumulando prestazioni in ragione di oltre il 200% di quanto versato.
Si tratta ovviamente di dati medi, ma esistono diversi esempi addirittura imbarazzanti: il Corriere della Sera, 5 luglio 1997, mette in evidenza un caso in virtù del quale una lavoratrice, cumulando i benefici delle diverse disposizioni, è andata in pensione a 29 anni, con solo 11 mesi di attività lavorativa (!).
Si è tentato negli anni passati di porre un freno alla voragine con diversi tentativi di riforma: che mai, però hanno potuto toccare i benefici già concessi, in virtù della intangibilità dei diritti acquisiti che la Giurisprudenza ha più e più volte sancito; e comunque si è proceduto, nella generalità dei casi, a trasformare il sistema di calcolo in un modello contributivo, che prevede la prestazione pensionistica quale funzione dei contributi effettivamente versati.
Ma il risultato, oltre a non sanare i conti del passato (per i quali si calcola un costo complessivo nel bilancio dello Stato di oltre 200 miliardi di euro), il sistema contributivo, fondato sul criterio logico di “restituire” sotto forma di rendita i contributi versati, ha dato origine a prestazioni così povere e misere da produrre una futura classe di indigenti.
Occorrerebbe ritornare al principio originario: le pensioni nascono nel 1889, in Germania con il Cancelliere Otto von Bismarck, con la finalità di assistere i lavoratori non più in condizione di produrre reddito al fine di alleggerire le tensioni sociali e costruire un modello di equità nello Stato sociale: e dunque sono un istituto assistenziale di equità; e non un diritto/premio che si consegue al raggiungimento di obiettivi di età o anzianità.
E dunque, se la natura è questa, forse continuare a pretendere che siano finanziate dai soli contributi versati è un errore ed è miope.
Potrebbe essere necessario, graduando gli stati di bisogno ai fini dell’equità, fiscalizzare almeno in parte le pensioni, ponendo a carico di un fondo generale le integrazioni al minimo. Che sia però un minimo vero, e non una somma inferiore alla sussistenza.
Non credo che molti sarebbero contrari ad incrementare le proprie aliquote di imposte dirette di un punto percentuale o poco più nella prospettiva di vedere un orizzonte futuro di pensione più congruo e sostenibile.
