Difficile dire quanti siano esattamente. L’unica certezza è che saranno loro a pagare il prezzo piĂš alto della pandemia. Sono i figli del dio minore, le partite Iva che non dovrebbero essere parate Iva. Ma che un mercato dell’occupazione elusivo e ipocrita costringe per poter lavorare a travestirsi da professionisti, se non addirittura da imprenditori, invece che accettare onestamente quel che sono: semplici lavoratori, precari e spesso sottopagati. Un esempio? Gli ottantamila (o novantamila, o centomila, chi lo sa?) lavoratori dello spettacolo, assunti a partita Iva perchĂŠ cosĂŹ si risparmia sui contributi. Tutti senza paracadute. I teatri sono sbarrati, gli spettacoli dal vivo cancellati, le tournĂŠe rimandate a data da destinarsi. E loro non hanno ammortizzatori sociali che ammortizzino l’emergenza. Per non parlare della crisi devastante del turismo, del suo indotto (in tutto, dicono le stime, 4,2 milioni di addetti) e dell’immenso settore della ristorazione: per eccellenza enormi serbatoi del precariato e del lavoro stagionale. Milioni di persone che hanno bisogno di una risposta subito. PerchĂŠ subito perdono il lavoro. E siccome le aziende e le ditte presso cui prestano la propria opera rischiano di fallire, il pericolo di ritrovarsi senza occupazione una volta che tutto questo sarĂ finito incombe pesantemente anche su di loro. Con tutte le conseguenze del caso in termini di occupazione e di conti pubblici, tenendo presente che il mondo del lavoro autonomo contribuisce per circa il 14 per cento alle imposte sui redditi. Dice una ricerca della Cgia (gli artigiani) di Mestre che gli autonomi pagano mediamente piĂš Irpef dei lavoratori dipendenti e dei pensionati (ma ci vuole davvero poco, in un Paese dove i salari sono fra i piĂš bassi d’Europa e ci sono tantissime pensioni povere). E i loro numeri sono peraltro in continua crescita. L’introduzione da parte del governo Conte uno della flat tax per i lavoratori autonomi fino a 65 mila euro, fortemente voluta dalla Lega, ha avuto l’effetto di creare in un solo anno ben 545.700 nuove partite Iva. Che hanno piĂš che compensato la cessazione di 403.818 posizioni. Con il risultato che nel 2019 il numero netto delle partite Iva è aumentato di circa 142 mila unitĂ , al ritmo di 388 al giorno. In questa prospettiva il bonus di 600 euro concesso agli autonomi non potrĂ di certo bastare a riparare i danni economici paurosi (e i drammi umani) che il Covid-19 avrĂ arrecato a tutte queste vite. Senza contare le solite difficoltĂ burocratiche e le classiche incongruenze che in Italia accompagnano regolarmente questo genere di provvedimenti d’urgenza. GiĂ le proteste sono fioccate, da parte di chi lamenta l’esclusione per determinate categorie di lavoro autonomo, come quelle che fanno capo alle casse previdenziali private. MercoledĂŹ 25 marzo l’associazione Univendita ha denunciato che il decreto Cura Italia (nemmeno questo si è sottratto alla inspiegabile e alquanto grottesca moda di battezzare con nomignoli propagandistici ogni provvedimento del governo) escluderebbe fra l’altro i 60 mila lavoratori della vendita a domicilio. Numero che comprende i 20.800 agenti di commercio nonchĂŠ i 41.600 venditori con partita Iva. Il presidente di quell’associazione, Ciro Sinatra, si è nell’occasione premurato di far sapere che per quanto desueto possa sembrare nell’era di Amazon il suo settore fa girare pur sempre 3,6 miliardi l’anno con 520 mila addetti. Chiaro che con la situazione che si sta profilando, nella piĂš completa incertezza di quando il coronavirus verrĂ sconfitto, il Cura Italia non può essere che l’antipasto. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte annuncia ÂŤun nuovo decreto che possa potenziare e rafforzare le misure economiche giĂ adottate, sia sul fronte della liquiditĂ , della protezione sociale e del sostegno al reddito, per le imprese, per le famiglie e per i lavoratori in particolare autonomiÂť. Quello del lavoro autonomo è un mondo a due facce. La prima è quella che è sempre stata osservata con il pregiudizio dell’evasione fiscale molecolare. Pregiudizio spesso non proprio infondato, a giudicare dai dati delle dichiarazioni dei redditi di certe figure professionali o artigianali. La seconda è quella di chi, dicevamo, è costretto a ricorrere a un travestimento inaccettabile per poter lavorare: un’assurditĂ che nessuna riforma del mercato del lavoro ha mai voluto affrontare. E che è com- L’opinione Una volta finita l’emergenza bisognerĂ rivedere tutto questo sistema e parlare finalmente di tutele, garanzie e trasparenza per abbandonare queste forme di precariato completamente (nonchĂŠ colpevolmente) sfuggita a ogni dialettica sindacale degna di tal nome. Una platea di milioni di persone, almeno un paio secondo i dati delle partite Iva che non figurano iscritte a una cassa di previdenza professionale, non tutte giovani, senza garanzie, senza tutele, senza poter chiedere un mutuo, senza la speranza di una decente pensione futura. Esposte a ogni rovescio della sorte, il fallimento del datore di lavoro, una crisi del mercato, perfino una malattia: in questo caso senza neppure essere malati. Ecco allora un altro nodo che questa tragica esperienza della pandemia arrivata dalla Cina ha fatto venire brutalmente al pettine. Il Covid-19 lo ha messo sotto gli occhi anche di chi, nel Palazzo, ha sempre finto di non vederlo. O se l’ha guardato l’ha fatto di sfuggita, pensando sotto sotto che tutto sommato certe forme di precariato potevano essere anche un toccasana per l’economia. Meglio precari e sfruttati con partita Iva che disoccupati, è sempre stato il refrain. Ebbene, una volta finita bisognerĂ rivedere tutto questo sistema. La discussione politica sul salario minimo, che lo scoppio dell’epidemia ha bruscamente interrotto facendola passare in secondo piano insieme a tutto il resto, giĂ ci pare tremendamente anacronistica. BisognerĂ andare oltre, parlare finalmente di garanzie, tutele e trasparenza. E chissĂ che tutto questo non ci faccia fare un altro passo avanti.
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