Fondo Onu per la pace, solo 439 milioni. Dona anche Sierra Leone

di Brando Ricci

ROMA – “Una goccia nell’oceano”. Comunque preziosa per poter immaginare di far fronte alla sfida “enorme” del Covid-19 e al “rischio di escalation” di tensioni sociali che nel mondo stanno accompagnando la pandemia. È la prospettiva dalla quale guardare al Peacebuilding Fund delle Nazioni Unite e alle risorse appena promesse da 39 Paesi per il quinquennio 2020-2024. Gli impegni, si riferisce in un articolo pubblicato da Oltremare, il web magazine dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), sono stati messi nero su bianco al termine di una conferenza di capi di Stato e di governo: 439 milioni di dollari a fronte di bisogni dichiarati per un miliardo e mezzo. Secondo il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, “l’ampiezza dei problemi richiede sforzi concertati per ridurre le tensioni e prevenire una nuova escalation”. L’assunto è che “la sfida senza precedenti del Covid-19 ha aggravato ulteriormente situazioni che si stavano deteriorando già prima della pandemia”.

La conferenza si è tenuta in collegamento video ed è stata coordinata dal presidente della Sierra Leone Julius Maada Bio, dal primo ministro del Sudan Abdalla Hamdok, dal ministro degli Esteri del Canada Marc Garneau e dal suo omologo tedesco Heiko Maas. In una nota diffusa al termine dei lavori si riferisce che “con gli impegni assunti il Peacebuilding Fund può continuare a facilitare un sostegno multidimensionale integrato, coerente e socialmente attento ai tanti Paesi impegnati in processi di pace e in transizioni complesse, che affrontino le sfide attuali e non lascino indietro nessuno”.

Parole dietro le quali, però, si nascondono i numeri. Le richieste di finanziamento sul tavolo erano e restano molto superiori all’ammontare promesso. Il divario è dovuto anche un aumento delle richieste dell’Onu, passate da circa 174 milioni di dollari l’anno del periodo precedente ai 300 milioni della fase 2020-2024. Secondo Marc-André Franche, responsabile del Peacebuilding Fund, circa il 60 per cento delle risorse stanziate negli ultimi tre anni sono arrivate da soli tre Paesi: Germania, Svezia e Regno Unito. Sono più o meno gli stessi che guidano la classifica dei nuovi impegni: la Germania, con 107 milioni, seguita dall’Olanda, con 66, e ancora la Svezia, con 60. Molto più giù in classifica sta l’Italia, appena un palmo sopra la Sierra Leone, un Paese tra i più poveri al mondo, devastato dalla guerra civile fino al 2002. Rispetto al governo di Roma, in un’intervista con Oltremare, Franche parla comunque di un impegno significativo. “L’Italia è stata partner e donatrice del Peacebuilding Fund sin dal 2007” ricorda. “Le siamo grati per il recente impegno da un milione di euro per il periodo 2020-2024 e per il suo sostegno continuo”. Negli ultimi anni e ancora adesso, nonostante le sue oltre 50.000 vittime e la crisi economica e sociale provocata dal Covid-19, l’Italia ha contribuito con regolarità. L’impegno esce però ridimensionato se letto in rapporto alle somme garantite dai primi della classe e, soprattutto, ai bisogni complessivi.

Tra gli ambiti prioritari del Fondo, con un’attenzione particolare all’innovazione, ci sono il consolidamento della pace a livello transfrontaliero e regionale e l’inclusione delle donne e dei giovani anche nell’ottica di un’apertura dello spazio politico. Finora gli interventi si sono concentrati in una quarantina di Paesi, dall’America all’Asia, passando per l’Africa e i Balcani. Franche cita il sostegno alla collaborazione tra le forze di sicurezza, le amministrazioni locali e la popolazione nella regione di Liptako-Gourma, nel nord del Burkina Faso, o l’appoggio all’attuazione dell’accordo di pace nella Repubblica centrafricana attraverso unità di sicurezza miste. “Dopo la crisi in Bolivia dell’anno scorso l’inviato speciale del segretario generale ha facilitato con l’Unione Europea e la Conferenza episcopale un processo di dialogo sulle elezioni” ricorda ancora il responsabile. “Il Fondo è intervenuto per rafforzare il monitoraggio delle violazioni dei diritti umani e per facilitare un accordo per la buona tenuta del voto e un dialogo più ampio a livello sociale”.

Nuovi interventi riguardano anche il sistema giudiziario ad Haiti, nella prospettiva di ridurre la popolazione carceraria in tempi di pandemia, con i nuovi rischi derivanti dal sovraffollamento delle prigioni. Un altro focus, nato dall’aumento delle violenze domestiche con i regimi di lockdown, è l’appoggio ai gruppi comunitari per il sostegno alle donne e a tutte le vittime sia sul piano della sicurezza personale che dell’accesso alla giustizia. Da fare c’è molto. Anche considerando che l’appello alla “tregua globale” lanciato dall’Onu un anno fa non è stato ascoltato ed è stato anzi violato più volte, dal Nagorno-Karabakh ai confini dell’Europa fino al Tigray nel cuore del Corno d’Africa. “La furia del virus” aveva detto Guterres quel 23 marzo 2020, “mostra la follia della guerra”.
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