Una vera riforma del fisco non si deve giocare nelle urne

Qualche giorno fa, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha sorpreso un po’ tutti affermando che «l’Italia ha bisogno di una vera riforma fiscale». Il governatore era alla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e stava presentando il suo libro «Anni difficili. Dalla crisi finanziaria alle nuove sfide per l’economia».

Ecco il punto: le nuove sfide per l’economia. E allora: può una “vera” riforma fiscale diventare uno dei tasselli per rendere l’economia più dinamica, più resistente ai venti (o alle tempeste) congiunturali?

Può diventare uno dei “mattoncini” per costruire un Paese migliore, più moderno, in grado di non smarrirsi in mercati sempre più globali e integrati, con un progresso tecnologico mai così rapido e tante altre sfide da affrontare, dalla finanza al lavoro?

E ancora: può una “vera” riforma fiscale rendere più efficace ed effettiva la redistribuzione del reddito, per limare differenze sempre più profonde, per offrire opportunità ai più deboli, per dare protezione agli “ultimi”, chiarendo una volta per tutte che non c’è e non può esserci contrapposizione tra sviluppo ed equità, ma che anzi quest’ultima può essere garantita solo grazie a una crescita sana e duratura del Paese e della sua economia?

Diciamo subito che discutere di riforma fiscale è sempre piuttosto pericoloso e ambiguo. Mai parlare di corda in casa dell’impiccato, verrebbe da pensare, con migliaia e migliaia di operatori, professionisti e imprese già sull’orlo di una crisi di nervi solo a sentir nominare una nuova riforma. «No, grazie! Abbiamo già dato» è la risposta più educata che si può ottenere.

È facile capire perché. Google impiega circa mezzo secondo a elencare uno dopo l’altro oltre 10 milioni di documenti disponibili sul web nei quali compaiono, appunto, le parole «riforma fiscale». Ora, se solo si considera che l’ultima “vera” riforma del Fisco in Italia risale ai primi anni ’70 del secolo scorso, si intuisce come l’uso, piuttosto disinvolto, di questi termini abbia allegramente etichettato come “riforma” anche quegli interventi che erano solo una manutenzione, più o meno robusta, del sistema tributario. Ed è anche facile capire come ogni intervento sia diventato un calvario di complicazioni, di decreti attuativi, di circolari, di interpretazioni, di sentenze ecc ecc che ogni operatore ha dovuto personalmente scalare.

L’attuale sistema di prelievo è sostanzialmente quello disegnato circa 50 anni fa. Il fisco, certo, non è rimasto immobile né identico a sé stesso. Al contrario, è passato attraverso una serie infinita di leggi e provvedimenti, nuove imposte, imposte da cancellare, da reintrodurre, aliquote più basse oppure più elevate e tante altre spigolature che via via l’hanno reso più confuso, complesso, meno organico, più estemporaneo e provvisorio.

Si pensi alla fase dell’alternanza tra i governi di centro-destra e di centro-sinistra (dal 1994 al 2011) e, di volta in volta, alle scelte dei ministri Vincenzo Visco e Giulio Tremonti.

Oppure si pensi, più di recente, dopo la crisi del 2011-2012, alla legge delega del 2014 che, accantonata presto l’ambizione di rappresentare una vera riforma tributaria, si limitò a puntare alla «realizzazione di un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita», obiettivo non certamente facile da centrare e che infatti i decreti delegati hanno solo minimamente soddisfatto. Oppure ancora si pensi agli “80 euro” di Renzi – peraltro citati proprio dal Governatore Visco come esempio delle più evidenti storture del sistema – o alle discutibili scelte dell’ultima manovra, a partire dall’anomalia della flat tax per le partite Iva individuali.

Tutto questo per dire che una “vera” riforma fiscale non può essere l’ennesimo intervento “mordi e fuggi” di cui il passato offre una casistica quanto mai ricca. Una riforma fiscale è un progetto organico, che sappia guardare a tutte le componenti del prelievo, prendendo atto di ciò che molti studiosi – a partire da Franco Gallo – ricordano da tempo, è cioè che i principali prelievi attuali colpiscono in modo eccessivo le famiglie (il lavoro) e le imprese (la produzione), senza intercettare la ricchezza moderna che spesso non ha patria e corre tra miliardi di bit. Senza scordare altri capitoli, dalla tassazione dei redditi di natura finanziaria a quella degli immobili fino al contrasto dell’evasione, per poi arrivare al ruolo dell’amministrazione finanziaria, al suo rapporto con i contribuenti, alla fase del contenzioso tributario che non può più essere considerata la cenerentola delle giurisdizioni, al sistema sanzionatorio, anche penale e molto altro ancora.

Una vera riforma fiscale nasce da una riflessione allargata, sapendo che fare tutto subito è probabilmente impossibile. E che serve quindi un disegno complessivo che abbia la forza di resistere e rafforzarsi oltre la durata di una legislatura. Una riforma “vera” nasce da un vero confronto di idee che coinvolga veri esperti, accademici, think tank indipendenti. Ce ne sono tanti e hanno molti papers su cui confrontarsi.

Al contrario, bisogna guardare con sospetto ogni abbaglio che serve solo a cavalcare l’onda perpetua della propaganda elettorale. Il richiamo delle urne è il meno adatto per discutere seriamente di come debba funzionare un fisco moderno, anche perché il tema finisce sempre per trasformarsi nel giochino di chi taglia più tasse. Che di per sé è una prospettiva corretta, ma certamente da calibrare con gli obiettivi di una riforma, anzi addirittura con l’idea di Stato, di Paese, di welfare ecc che si intende perseguire.

Lo vediamo in questi giorni. Dopo mesi e mesi di silenzio totale sulla “vera” flat tax, sul taglio del prelievo, sullo splitting e altro ancora, nell’agenda dei partiti rispunta magicamente il tema della riforma fiscale, guarda caso alla vigilia di un appuntamento elettorale che sarà cruciale per il destino dell’Europa ma anche per sancire quale forza politica avrà l’egemonia negli equilibri dell’attuale governo o di quello che prima o poi prenderà il suo posto.

Diffidare di chi vende illusioni. E diffidare di ogni suggestione di piccolo cabotaggio (il taglio di un’aliquota non è la riforma fiscale), se non ci si vuole rassegnare a continuare con il trantran confuso di un sistema pensato a metà degli anni ’60. Lo si può fare, naturalmente. Però, poi, almeno non lamentiamocene.

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