Ogni paese sviluppato è costantemente alle prese con il problema del bilanciamento della spesa pubblica, tendenzialmente crescente, e con la capacità dei suoi contribuenti di sostenerla. L’Italia è da sempre, da questo punto di vista, uno dei paesi messi peggio in assoluto, essendo altissimo da noi il peso della spesa statale rispetto al pii. Le ragioni del declino dello Stivale sono tante, ma la principale è legata alla dinamica demografica tra tax producers (i «produttori di tasse», cioè i contribuenti) e i tax consumers (i consumatori di tasse) cioè chi vive di spesa pubblica. Le dinamiche di spesa del pubblico impiego, della ridistribuzione territoriale e del sistema pensionistico negli anni hanno fatto sì che sempre più persone vivessero di tasse e sempre meno persone fossero messe nelle condizioni di generarle. Una volta che si entra in questo tipo di percorso, è molto difficile invertire la rotta ed è molto più facile invece continuare ad accentuarlo, perché il peso fiscale diviene tale da diminuire la praticabilità e l’appetibilità dell’attività «nel mercato» – e simmetricamente rende sempre più conveniente essersi posizionati dalla parte del posto fisso e della rendita assistenziale. Il Covid è entrato prepotentemente in questa dinamica da tempo avviata, colpendo selettivamente l’Italia che lavora nel mercato, fermando o riducendo ai minimi termini moltissime attività economiche private. Questo ha non solo colpito in modo diretto il reddito di tantissime persone, ma evidentemente ha anche ridotto considerevolmente la base fiscale del paese. Al tempo stesso tutti coloro che sono stipendiati dal settore pubblico hanno mantenuto in pieno il loro salario e nessun costo dello Stato si è ridotto a fronte delle minori entrate fiscali; anzi, lo Stato si è messo addirittura a spendere di più «per gestire l’emergenza». Si è quindi creato un drammatico squilibrio tra entrate e uscite delle casse pubbliche. Di fronte a questa situazione, la politica ha continuato a professare la convinzione che all’orizzonte ci sia una «ripresa a V», cioè che la crisi del Covid resti circoscritta nel tempo e negli effetti e che quindi sia destinata a essere recuperata pienamente – e che tutto quello che occorre sia semplicemente «passa ‘a nuttata» attraverso l’opportuno ricorso a una fase di indebitamento. In realtà, le molteplici previsioni secondo cui l’Italia recupererebbe gli effetti della crisi a fine 2022, cioè nel giro tutto sommato di poco tempo, appaiono purtroppo eccessivamente ottimistiche. Esse si basano sulla semplicistica concezione che le progressive riaperture corrispondano a riaccensioni di interrutori che sostanzialmente ripristinano lo status Quo ante. Ma la realtà non funziona così: l’orologio della storia non può mai essere riportato indietro. I danni arrecati al tessuto economico, socia le e civile del paese sono in gran parte per sempre. Molte piccole e medie attività, stroncate da questi due anni di chiusure non riapriranno più, ma anche i settori non colpiti in maniera diretta dalle chiusure potrebbero vedere il loro giro d’affari fortemente ridotto per l’effetto della minore domanda di un paese impoverito. La crisi del coronavirus potrebbe anche aver portato dei cambiamenti permanenti alle abitudini riducendo in termini generali l’attitudine alla spesa, al movimento e al rischio. L’Italia appare, peraltro, meno attrezzato degli altri per innescare un recupero di più alti livelli di attività economica. Tra le varie cose, la rigidità del nostro mercato del lavoro (e il tentativo politico di «accanimento terapeutico» su molte attività economiche non più recuperabili) renderanno improbabile che la domanda e l’offerta di lavoro possano incontrarsi nuovamente in maniera efficiente. Insomma, è del tutto improbabile che, almeno in Italia, la crisi sia l’occasione per una qualche palingenesi economica che porti a tagliare i rami secchi e a concentrare le risorse verso attività a più alta produttività e valore aggiunto. Alla fine, è del tutto credibile che il pii del nostro Paese possa consolidarsi a livelli strutturalmente inferiori anche di un 10-15% rispetto ai livelli pre-crisi. Evidentemente a ciò corrisponderebbero introiti fiscali destinati ad assestarsi strutturalmente a livelli significativamente più bassi di quelli che abbiamo conosciuto finora. La classe politica continua a eludere questa fondamentale questione che pure si porrà quanto prima in tutta la sua drammaticità. Come intende finanziare l’Italia una spesa pubblica che non solo non si è ridotta proporzionalmente con la diminuzione delle entrate fiscali, ma si è addirittura accresciuta? Davvero uno dei paesi con il debito pubblico più alto del mondo pensa di andare avanti registrando, nei prossimi anni, un 15-20% annuo di deficit rispetto al pii? Davvero l’Italia può continuare a pretendere di sostenere una spesa pubblica di livelli svedesi o danesi con un pii che potrebbe realisticamente attestarsi su livelli portoghesi o estoni? Si dovrebbe cominciare a riflettere su una strategia di drastico contenimento e razionalizzazione della spesa pubblica, per riportarla a livelli che siano nuovamente sostenibili. E invece da bene l’idea del degrado del nostro quadro politico-culturale il fatto che si continui a veicolare l’impressione che questo sia per lo Stato addirittura un momento di «vacche grasse» — con il Recovery Fund a rappresentare un insperato tesoretto con cui poter fare ulteriore spesa pubblica ideologica, clientelare e assistenziale. Non c’è che dire. Il risveglio sarà brusco.
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