Ciad, il console Favaretto: “Se Ali è prigioniero rischia la vita”

ROMA – “Conosco la regione del Kanem villaggio per villaggio: oggi resta una ‘no man’s land’, corridoio della tratta di esseri umani verso Niger e Libia; per il governo chi sta con i ribelli è un qaedista e se adesso è prigioniero rischia la morte”. A parlare con la ‘Dire’ è il console onorario Ermanna Favaretto, in Ciad già prima che cominciasse l’era di Idriss Deby Itno.Del Kanem è originario Ibrahim Ali, lo studente dell’Università Statale di Milano che risulta irreperibile da febbraio, dopo esser partito “per far visita ai parenti”. Laureando in Scienze politiche, in Italia dal 2009, è nato in Ciad nel 1991. Allora al potere c’era già Deby. E già da diversi anni Favaretto conosceva il Kanem: era stata lì al tempo della guerra tra la Libia del colonnello Muammar Gheddafi e l’esercito di N’Djamena agli ordini del presidente Hassane Habré.

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In quei villaggi, dopo l’arrivo in Ciad con la Croce Rossa, Favaretto racconta di aver portato “2mila pozzi d’acqua”. Poi ci sono stati impegni di studio, lavoro per il Fondo aiuti italiani, consulenze per un’autostrada transhariana e poi ancora con Unicef e Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo.

Nell’intervista si comincia però dalla fine o forse da un nuovo inizio, dopo la morte di Deby e la nomina a capo di Stato ad interim del figlio Mahamat, generale a quattro stelle, già comandante in Mali e responsabile della Guardia presidenziale. “La versione ufficiale è che il capo dello Stato sia morto nella battaglia contro i ribelli del Front pour l’Alternance et la Concorde au Tchad”, dice Favaretto, “ma bisogna capire se non sia rimasto in realtà ucciso dopo un tentativo di riconciliazione finito male”.

Per comprendere la posta in gioco e i rischi bisognerebbe però allargare lo sguardo e considerare l’evoluzione degli ultimi anni. “Quella zona è da anni il canale fondamentale per la tratta dei migranti e il traffico di droga verso il Niger e la Libia” sottolinea il console: “Dopo la caduta di Gheddafi i gruppi qaedisti sono diventati sempre più attivi e dal 2018 si è risvegliato anche il Front, che resta comunque un gruppo relativamente piccolo, che conterebbe circa 1.500 combattenti”. I ribelli hanno stabilito basi nel sud della Libia dopo il rientro dalla Francia del loro capo Mahdi Ali Mahamat, un ex veterano tornato dalla Francia nel 2015.La loro ultima offensiva è coincisa con le elezioni dell’11 aprile: doveva scongiurare un nuovo mandato di Deby. Il presidente è stato rieletto e subito dopo ucciso, nel Kanem, presso il villaggio di Nokou. Nella regione ci sono stati almeno tre scontri militari di rilievo, con morti, feriti e prigionieri. I ribelli hanno riferito della perdita di almeno 60 uomini e della cattura di decine di altri, dei quali alcuni in seguito liberati. In settimana ci sono stati combattimenti nell’area di Nokou ed è stata assaltata Koro Toro, una prigione di massima sicurezza nel deserto, dove erano stati reclusi nel 2019 militanti di un altro gruppo ribelle, l’Union de forces de la resistance (Ufr), fondato da un nipote di Idriss Deby.

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All’offensiva militare contro il governo se ne sarebbe accompagnata un’altra sul piano della comunicazione. “Negli ultimi sei o sette mesi anche in Italia c’è stata una campagna contro la rielezione di Deby da parte di giovani ciadiani” sottolinea Favaretto. “Le ipotesi che qualcuno sia partito per unirsi ai ribelli, nel nome della ‘democrazia’ e magari passando per la Libia, sono tutte da verificare: questi non sono viaggi che si possono intraprendere da soli”. Kingabe Ogouzeimi de Tapol, coordinatore politico del Front, sentito dalla ‘Dire’, ha sostenuto di non poter confermare l’arrivo di combattenti dall’Italia per “ragioni di sicurezza”.

Ieri, per i funerali di Deby, a N’Djamena c’era anche il presidente francese Emmanuel Macron. “Non permetteremo a nessuno, né oggi né mai”, ha detto, “di mettere in discussione la stabilità e l’integrità del Ciad”.
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