Verdi colline e bimbi sul confine: il ‘game’ dei migranti è a 300 metri

VELIKA KLADUSA (BOSNIA ERZEGOVINA) – C’è chi chiede abiti nuovi, ma da turista: per mimetizzarsi su uno degli autobus che portano in Croazia; c’è chi aspetta nei boschi la luna piena per scegliere la notte ‘giusta’ per attraversare il confine; c’è chi si infila sotto i camion, e poi ci sono loro: i bambini, tanti che -con i loro genitori- ‘vivono’ nelle case diroccate a pochi chilometri dal confine che è un affaccio sulla Croazia. Anja, nome di fantasia, dorme stesa su una coperta vicino alla tenda della sua famiglia: è quasi mezzogiorno, si riposa; “Siamo tornati due ore fa, abbiamo provato il ‘Game’ stanotte”, dice il padre mentre riscalda dell’acqua in uno strano scuro cilindro sopra un fuoco tra le pietre.

Siamo dalle parti di Velika Kladusa, una delle città bosniache della Rotta dei balcani: qui i migranti che sognano l’Europa sono tanti, girano per le strade con carrelli e passeggini, ma anche qui stanno ai margini. Bosasnka Bojna è uno di questi: una strada tra le colline coltivate che sale e scende dolcemente e arriva a fino a 300 metri dal confine. Due chilometri e mezzo prima, tra una casetta e l’altra, ci sono quelle ‘abbandonate’, diroccate, distrutte con la guerra. E sono più abitate delle altre: rifugi di tante famiglie con figli anche piccolissimi. Una giovane mamma di 23 anni, velo in testa, tiene in braccio il figlio di poco più di un anno: è afgana, lo ha partorito in Grecia ed è il quinto figlio. Nel raggio di un chilometro si incontrano almeno una ventina di famiglie, bambini e ragazzini sono il doppio. Dormono in tende, molte sistemate all’interno di carcasse di case sporche e sbrecciate. Qui ci si viene solo accompagnati dalla Polizia. Qui perfino un agente non riesce a resistere alla ‘simpatia’ del sorriso dei bimbi che si avvicinano subito a chiunque arrivi: anche lui si accovaccia e scambia qualche parola, e scherza con uno di questi piccoli.

Nei prati attorno alle case abbandonate di Bosasnka Bojna ci sono tende e costruzioni di fortuna: tre pali per fare una ‘doccia’: “Qui il problema è l’acqua, non ne abbiamo”, dice un papà che prepara il ‘Game’: dovranno lasciare molte delle poche cose che hanno nell’accampamento, si viaggia leggeri per superare il confine e lui dovrà caricarsi in spalla un figlio. Sotto il sole di mezzogiorno ci si industria per il pranzo con i pentoloni sul fuoco. I giovani volontari di ‘Bologna sulla rotta’, alla loro ultima tappa del secondo viaggio in Bosnia, oggi sono circondati da bimbi: bastano dei taralli per vederli accorrere a frotte con le mani giunte per averne un po’. Lì vicino, i loro papà e altri migranti mostrano le piaghe nei piedi, gli schermi dei telefonini rotti dalle guardie di frontiera (niente più Gps al prossimo ‘Game’…), le fasciature per le botte ricevute.

I volontari di Emmaus Bosnia qui fanno incetta di contatti di possibili nuovi utenti del centro diurno di Velika Kladusa: la lista delle cose che servono ci mette pochissimo a diventare lunghissima. La distribuzione sul posto di aiuti non si può fare e allora i volontari informano le mamme che in città, a 24 chilometri da fare a piedi, trovano chi lava i vestiti dei loro bimbi, abiti puliti, docce (qui ci si sciacqua solo in un piccolo fiume), cibo e quanto può aiutare a provare il ‘Game’. “Tomorrow maybe we go”, dice un migrante che da un mese ‘vive’ qui e vuole raggiungere fratelli e sorelle in Germania. Per chi supera il confine, il primo ‘passo’ successivo è a 100 chilometri, a Zagabria: là ci sono campi per i migranti. Sulla strada che porta a questo ‘avamposto’ di confine, si vedono tanto i passeggini quanto uomini forti con enormi fagotti sulle spalle. Gli agenti del posto di blocco, ormai abituati, fanno cenno che possono avanzare passando tra le auto della Polizia.

Lungo la strada per Bosasnka Bojna un gruppo di ragazzini migranti fa la cosa che fanno tutti i ragazzini del mondo: gioca col cellulare; hanno trovato un abitante locale che permette di collegare i telefonini alla corrente: seduti su un muretto ridono divertiti tra di loro, mentre gli adulti si dissetano con una bevanda locale. “Ma devono pagare per questo, eh…”. Comunque “qui ai bambini per giocare basta un filo d’erba”, è la ‘normalità’ che si mostra ai volontari bolognesi: una pietra tirata nel fuoco o un bastone sono i giochi dei più piccoli. “Ci si sente quasi in colpa nel gioire della bellezza di questi posti pensando a chi ci vive”, dice una giovane bolognese di 21 anni. E questo è solo uno dei ‘mondi’ di questa parte di confine.

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Più vicino a Velika Kladusa non ci sono bimbi al ‘Campo bangla’: per arrivarci si lascia la strada statale, si devia per le campagne, si supera una vecchia fabbrica ora squat di afgani, e si risale per un bosco: superata la barriera di alberi che scherma il campo alla vista, si entra in una piccola città di tende in pendenza: capanni di fortuna, teloni e bastoni. Qui tre mesi fa c’erano 100 bangladesi, oggi 20 e vorrebbero tanto gli zaini con cui sono arrivati gli italiani. Anche qui si cucina, riso sui pentoloni. C’è un piccolo pannello solare comune per ricaricare i cellulari. Ma quando piove il fango scivola nelle tende. E qui c’è perfino chi si è inventato un”attività’, la produzione di sigarette che si possono rivendere o fumare per ingannare l’attesa. Il campo Bangla oggi è immerso nel silenzio, poca gente, i migranti sono in giro. Al centro diurno di Emmaus Bosnia a Velika Kladusa anche oggi ne arriveranno almeno 30.

Sulla porta d’ingresso della struttura di Emmaus Bosnia c’è scritto ‘edificio in preparazione’, ma dentro è tutto funzionante. Quel cartello serve a evitare noie burocratiche: il centro diurno funziona perché un servizio lo offre, anche a chi è del posto e in difficoltà, è riconosciuto e noto ma formalmente non c’è un documento scritto che mette un ‘timbro’ alla sua attività. Da queste parti è vietato distribuire aiuti nei campi selvaggi, dare un passaggio per strada a un migrante… Così “vengono qui, entrano, chiudono la porta” e trovano docce, vestiti puliti, cibo, corrente per ricaricare i telefoni. E qui raccontano le loro storie, prima di ripartire e tentare il ‘Game’. Alle volte provano a passare il confine in gruppi di 50-60 persone, racconta in perfetto inglese una volontaria di un’associazione che offre il lavaggio dei vestiti dei migranti: ma così non sono troppo ‘avvistabili’? ‘Sì, li vedono e li fermano, ma almeno forse non tutti; forse in 20 passeranno’. Gli altri tornano indietro. E tanti con storie ‘dure’ da raccontare. La volontaria ricorda una donna fatta spogliare davanti agli altri migranti -parenti compresi- dalle guardie di frontiera: è tornata al campo e per un mese è rimasta in tenda senza parlare, nemmeno alle figlie. “Afgani e marocchini sono uomini orgogliosi: uno di loro, picchiato, è rimasto in tenda finché lividi e ferite non sono spariti”. Ci sono storie di migranti fatti spogliare e spinti d’inverno nei fiumi, “usually beaten”, telefoni rotti, powerbank sequestrate. “Una volta ho visto tornare indietro un gruppo di 85 persone. La cosa peggiore che ho sentito raccontare? Un gruppo fatto svestire, gli hanno ordinato di stendersi gli uni sopra gli altri e con un bastone hanno fatto un test di omosessualità…”. Era un anno fa, ma lei lo ricorda ancora e lo racconta con gli occhi lucidi.

“Ho in incontrato tante persone- dice la volontaria Maria (anche qui nome di fantasia)- molti sono amici, ricordo chi mi ha scritto ‘ero arrivato, vedevo le luci dell’Italia, ma mi hanno respinto…’. So di gente che ha passato mesi e mesi di depressione ma ora ce l’ha fatta, è in Inghilterra… Ma quelli che vengono respinti, non è facile vederli tornare”. A Maria è rimasta impressa l’immagine del papà che sotto la neve caricava sulle spalle il figlio coperto da un sacco nero della spazzatura, o la storia di quel bimbo di sette anni che era per strada e qualcuno gli ha sparato: è stato portato in ospedale, curato, è guarito, e per tutto questo tempo alla mamma, ferma in uno dei campi selvaggi lungo il confine, hanno raccontato che stavano provando il ‘Game’ e non potevano quindi comunicare con lei.

A vedere come te le raccontano queste storie, è quasi impossibile pensare che siano inventate. Anche perché ci sono anche quelle con un finale diverso: “Mi ha chiamato un amico arrivato a Venezia, mi ha gridato ‘It’s great’”.

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