Violenza sulle donne, Caterina: “Ha provato a uccidermi e non è mai finito in carcere”

ROMA – “Quando ho sentito del caso di Ardea mi è salito un senso di ingiustizia, anche se la vicenda non è paragonabile alla mia. Sono tragedie che possono essere evitate, ma la beffa è data dal non riconoscimento pubblico dei danni esistenziali, dai processi lumaca e dall’assenza di risarcimenti alle vittime. Non c’è certezza della pena”. A parlare con l’agenzia Dire è Caterina (nome di fantasia) che ha deciso di raccontare la sua storia drammatica, avvenuta nel 2004 a Roma. Un vicino di casa, un ragazzo poco più che ventenne, ha provato ad uccidere lei e sua madre. Gli è stato riconosciuto un parziale vizio di mente e ha avuto una condanna a 4 anni e 20 giorni. Fermato nella sua follia omicida solo da un poliziotto che ha dato l’allarme mentre l’uomo si metteva in macchina per fare forse chissà quale Far West. È a casa con sua figlia piccola e non riesce a dimenticare la triste cronaca di Ardea: i fratellini e l’anziano uccisi da Andrea Pignani, già in passato sottoposto a consulenza psichiatrica. Per il carnefice di Caterina non si sono mai davvero aperte le porte del carcere.

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È il 29 giugno 2004 nel quartiere Colle Salario, sono le 9 di mattina. Caterina e sua madre non lo sanno ancora, ma sono finite nel mirino casuale del loro vicino di casa, porta a porta sullo stesso pianerottolo di condominio. Il ragazzo, poco più che ventenne, suona al campanello di casa gridando. La mamma di Caterina apre le porta e lo segue domandandogli cosa stesse accadendo. Ma non fa in tempo. Lui le dice: “Sporca negra muori”. La raggiungono sei colpi d’arma da fuoco all’addome. Si protegge con il braccio. Caterina sente i colpi, le grida, si alza dal letto, si precipita fuori dall’uscio di casa. L’uomo, D.M., le spara un colpo in pieno viso. “L’ho visto a pochi centimetri mentre sparava. Mi ha attraversato da parte a parte, sono caduta, mi sono rialzata e ho telefonato da casa a un mio amico. Non so come ho fatto…”, ricorda tra le lacrime.

“Non sembrava così pericoloso, girava la voce di un cane sparito…”, dice Caterina che oggi decide di tornare su questo trauma che le ha cambiato per sempre la vita perché “per le vittime non c’è certezza della pena. L’uomo gira a piede libero da anni – racconta – è stato condannato a 8 anni e mezzo in primo grado, abbiamo fatto appello, alcol e droga non sono stati considerati aggravanti e così tra la depressione, l’indulto e il rito abbreviato ha fatto appena un anno in una clinica psichiatrica e poi i domiciliari per poco tempo”. Ma non è tutto. “Ho fatto causa al padre – dice ancora – per omessa custodia delle armi ed è andata in prescrizione”. Insomma D.M. non ha scontato sua la pena, per un “parziale vizio di mente” come spiega l’avvocata di Caterina, Alessandra Delia, raggiunta dalla Dire. Nessun risarcimento è arrivato perché nullatenente, e, continua Delia, “il procedimento contro il padre indagato e processato per omessa custodia delle armi, un arsenale di 2 pistole 2 fucili e 7 caricatori, che si trovavano in una vetrinetta, è finito in prescrizione”.

“Ho subito un’operazione maxillo facciale molto delicata”, spiega Caterina che a fatica ripercorre quei momenti. “Mia madre al Pertini è finita in coma, oggi non vuole più parlare dell’accaduto, ha delle placche al braccio, non è mai venuta a un’udienza perché non ce la fa. Io – continua – ho fatto 7 anni di terapia per una sindrome da stress post-traumatico, ho avuto attacchi di panico”. Le spese mediche e legali affrontate da Caterina e sua madre non hanno trovato alcun risarcimento. “È stato stabilito in via provvisionale nel processo penale, ma non ho ottenuto niente perché hanno fatto sparire ogni intestazione di beni e svuotato il conto. Il procedimento civile non l’ho neppure avviato, già così ho sostenuto spese significative”.

L’avvocato di Caterina ha ripercorso la vicenda giudiziaria sottolineando anche la criticità dei tempi e un profilo di contraddittorietà. “L’uomo, che ha scelto il rito abbreviato, ha avuto una condanna definitiva dopo tre gradi di giudizio e la Cassazione ha annullato con rinvio alla sentenza di secondo grado. In primo grado il gup aveva riconosciuto l’aggravante per futili motivi, arrivando a una condanna di 8 anni e 6 mesi per i due tentati omicidi e per lesioni gravissime. In secondo grado – ha spiegato ancora la legale – è stata messa in discussione la perizia fatta sull’imputato in incidente probatorio nella quale il consulente del Pubblico ministero aveva individuato la capacità di intendere e volere. In Appello è stata rivalutata in semi incapacità e la pena è stata ridotta a 4 anni e 6 mesi. Impugnata in Cassazione che ha stabilito di rideterminare la pena, alla fine si è arrivati a 4 anni e 20 giorni”.

Delia spiega: “I fatti sono del 2004, il primo grado nonostante il rito abbreviato è del 2007, in carcere era stato pochissimi giorni, poi si era fatto i domiciliari e il ricovero in casa di cura è durato quasi un anno. Tutto si è concluso nel 2015, anche la questione rieducativa quando la condanna arriva dopo tanti anni, ben 13, viene meno. Oltre alla beffa di essere nullatenente che ha impedito che Caterina e sua madre, nell’ordine 30 e 50mila euro, venissero risarcite. Non c’è stato nemmeno ristoro delle spese legali, dato che al momento dei fatti era maggiorenne e non è stato possibile rifarsi nemmeno sui genitori”.

Nella vicenda del tentato omicidio di Caterina e di sua mamma c’è un aspetto di contraddizione che l’avvocato Delia commenta: “In primo grado il padre è stato assolto perché il Tribunale ha ritenuto che avesse custodito le armi in modo adeguato. In secondo grado la Corte di Appello ha riconosciuto l’omessa custodia delle armi, ma è intervenuta la prescrizione del reato. La Cassazione non ha rimesso la decisione al primo giudice, ma ha solo confermato, ai fini della responsabilità civile del padre, che le armi fossero correttamente custodite. La norma sulla custodia delle armi è generica e, di fatto, l’interpretazione è rimessa alla discrezionalità del giudice. La contraddizione è che sia stato proprio il figlio, al quale è stata riconosciuta la semi infermità, il testimone fondamentale nel processo al padre sulla custodia della armi, durante il quale ha dichiarato di aver faticato per impadronirsene”.

Dunque D.M. è quello che ricorda di aver faticato per prendere le armi e mettere in atto il suo piano, o quello del processo sul tentato omicidio colto da un raptus di follia?”Avrebbe fatto una strage – insiste l’avvocato – evitata grazie ad un poliziotto che aveva appena terminato il turno e riesce a segnalare la targa, quando l’uomo uscito da casa dopo aver sparato 9 colpi, ne spara uno contro la macchina. Ricordiamo che era sotto effetto di alcol e cocaina come accertato. Sarebbe stato un Far west, proprio come ad Ardea”.Caterina è scoraggiata e spaventata per l’assenza di prevenzione, per la facilità con cui persone con problemi mentali accedono alle armi. Quale protezione? E quale sicurezza sociale?

“È assurdo che si applichi l’indulto ai reati contro la persona. Bisognerebbe inoltre incrociare le banche dati tra chi ha armi e chi ha instabilità psicologiche, troppa facilità nel rilascio del porto d’armi e poi zero controlli. La cronaca dei femminicidi dovrebbe suggerire come intervenire per evitare stragi, invece non si fa nulla e si derubrica con la giustificazione del raptus. Se in casa vive una persona che è psichiatrica, più o meno conosciuta all’Asl, non si possono tenere armi. E poi servirebbe un fondo per le vittime che oggi esiste solo per chi è alla fame. Qui c’era la fragranza, un tentato omicidio, i futili motivi, l’alcol e la cocaina rilevati dai test, per le vittime come noi è una frustrazione continua e la chiusura delle strutture psichiatriche è diventata di fatto un abbandono delle famiglie. Sono e continuo ad essere garantista, ma non accetto che chi è vittima lo sia due volte”. “Sono dolori che si riaccendono – racconta Caterina descrivendo il proprio stato d’animo alla notizia di tre vite innocenti, due bambini piccoli, stroncate ad Ardea senza un perché – ti senti abbandonata, non difesa e quel dolore che sta lì ogni volta che viene scoperchiato”.

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