11 settembre, la giornalista Battaglia: “Ora Biden chiuda l’inferno di Guantanamo”

ROMA – “Oltre 700 detenuti sono passati per il carcere di massima sicurezza di Guantanamo, la maggior parte innocenti, colpevoli solo di essere ‘i ragazzi sbagliati nel posto sbagliato’. Ne restano ancora 39, di cui forse una decina colpevoli di qualche reato. L’odio e il risentimento che quel carcere insieme agli altri ‘black sites’ della Cia (le prigioni segrete, ndr) alimenta nel mondo arabo-islamico è un punto grave da cui non si torna piĂą indietro: è il carburante per quella macchina della propaganda antioccidentale e antisecolarista alla base dei gruppi terroristici internazionali, vecchi e nuovi, che gli Stati Uniti si prefiggevano di combattere”. Laura Silvia Battaglia lo afferma con convinzione, lei che da oltre dieci anni segue la vicenda di Guantanamo Bay. Il prossimo sabato ricorreranno 20 anni dagli attacchi all’America, e in occasione di quella data uscirĂ  in libreria ‘Lettere da Guantanamo. Dall’inferno al limbo, dove sono i detenuti del 9/11’, edito da Castelvecchi. Un lavoro d’inchiesta che aggiorna l’e-book del 2016 con documenti e testimonianze inedite, raccolte dalla cronista con perizia, alcune “inseguite per anni”.

All’agenzia Dire, la giornalista, autrice e conduttrice per Radio 3 Mondo, esperta di Medio Oriente, dichiara: “Non è stato facile raggiungere i testimoni di quei fatti. Che si tratti di vittime o carnefici, dei loro famigliari o di chi si è trovato a lavorare in quel contesto – come secondini o avvocati -, ci si scontra sempre con un potente detonatore emotivo. Non è scontato intervistare vittime di tortura o famiglie che hanno figli, mariti o fratelli dentro a questi campi e sanno che un processo non ci sarĂ  mai. O i parenti delle vittime dell’11 settembre”.

Navigare in un materiale “così complesso” per la giornalista è anche “una lezione: ti insegna che non puoi presumere nulla nĂ© arrivare a conclusioni affrettate. Ma neanche sperare che chi parla ti dica la veritĂ . Bisogna lavorare a ogni singolo caso con attenzione e trarre conclusione di massima”.

Ciò che emerge con chiarezza da questo lavoro d’inchiesta, secondo Battaglia è che “a 20 anni dall’istituzione di Guantanamo, ci troviamo ancora a fare i conti con le conseguenze della repressione del terrorismo. Un’attivitĂ  portata avanti in modo capillare dagli Stati Uniti dopo i tragici fatti dell’11 settembre. Ma delle 780 persone detenute dal 2002, soltanto una decina sono realmente colpevoli di qualcosa, e in questi anni ancora si attende un processo, un’accusa formale”.

Oltre a ciò, pesano anche le accuse di tortura e sospensione di ogni diritto, documentate dai report delle organizzazioni internazionali, tra cui Amnesty international e Wikileaks, o le foto comparse sui giornali dei detenuti vessati dai militari americani. “Tutto questo ha alimentato in realtĂ  l’adesione ai gruppi terroristici” dice Battaglia: “Tutti ricordiamo i video dell’Isis che giustiziava i prigionieri vestiti con le tute arancioni, uguali a quelle dei detenuti di Guantanamo”.

Guantanamo diventa allora “una chiave per capire la storia degli ultimi 20 anni ma anche l’immediato futuro” secondo la giornalista, convinta che non è un caso se “cinque dei componenti del nuovo governo annunciato ieri dai talebani in Afghanistan sono ex detenuti di Guantanamo”.

Negli ultimi giorni però, un progresso c’è stato: si è riaperto il processo ai presunti attentatori del 2001 “Sono effettivamente colpevoli, mettiamo via le varie teorie del complotto” dice Battaglia. Ma si tratterĂ  di un punto di svolta? “Sicuramente” risponde la cronista. “Dopo 20 anni, nel momento in cui gli americani decidono di defilarsi dal Medio Oriente, si aspetta che si metta un punto alla vicenda. Il presidente Joe Biden, sebbene non si sia discostato dalla linea del disimpegno militare dal Medio Oriente delle precedenti amministrazioni, deve dare una risposta alla compenente elettorale democratica: fare ciò in cui Obama fallì, ossia chiudere Guantanamo”.

Secondo Battaglia, un carcere che però ha operato al di fuori di ogni legalitĂ  e che pertanto “resterĂ  sempre una macchia per gli Stati Uniti”. Ne seguirĂ  un processo internazionale per crimini di guerra e contro l’umanitĂ ? “Tante organizzazioni in questi anni ci hanno provato ma non dimentichiamo che le testimonianze e le accuse di torture riguardano tanti ‘black sites’ della Cia” dice la giornalista. “Se crediamo nel sistema democratico e nella Convenzione di Ginevra che noi stessi abbiamo creato allora non possiamo fare sconti a nessuno”.
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