Egitto, l’amica in aula: “Zaki sta bene, ma il carcere lo ha cambiato”

ROMA – “Patrick ci è sembrato in buona salute, ma dopo quasi due anni che non lo vedevo l’ho trovato diverso: non voglio dire invecchiato ma di certo il carcere lo ha cambiato. Sembra insofferente e dietro un certo autocontrollo si nota che ha perso quel suo essere sempre allegro, che invece era un tratto della sua personalità”. A parlare con l’agenzia Dire è L., un’attivista di Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr), l’ong con cui Zaki collaborava. I colleghi e amici dell’ong non hanno mancato di far sentire il loro sostegno in aula, stamani, quando a Mansoura – nel nord dell’Egitto – si è aperto il processo contro lo studente esperto in diritti di genere. Una quindicina in tutto, compresi i familiari del ragazzo.

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“Abbiamo aspettato tanto prima di entrare- continua la ricercatrice- e poi una volta in aula, tutto si è svolto molto in fretta”. Patrick, secondo il resoconto della sua amica, era presente, chiuso nella ‘gabbia’ che si trova accanto al palco dei giudici, con le manette ai polsi e indosso la divisa del carcere cautelare: t-shirt e pantaloni bianchi.

“I suoi legali- continua la ricercatrice- hanno subito presentato istanza per il rinvio del processo perché, finalmente, dopo quasi 19 mesi dall’arresto, hanno avuto accesso alle carte delle indagini e hanno chiesto di avere il tempo necessario per studiarle”.

L’esponente dell’Eipr denuncia che è dal febbraio 2020, quando Zaki è stato arrestato, che i legali sono all’oscuro delle carte dell’inchiesta e delle accuse formali. “Dopo tanta attesa- continua L.- oggi il giudice le ha comunicate direttamente a Zaki: diffusione di false notizie sia in Egitto che all’estero”.

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Secondo la giovane, ne sarebbe seguita una sorta di “ramanzina”: “il giudice gli ha spiegato che con le sue azioni avrebbe rappresentato una minaccia per l’ordine pubblico e diffuso ‘paura tra le persone’. E tutto questo per un articolo in difesa dei copti”.Secondo l’esponente dell’ong, Zaki ha replicato dichiarando di “non capire per quale motivo ha dovuto trascorrere 18 mesi dietro le sbarre” e “quindi ha detto che, pubblicando quell’articolo, ha solo esercitato la sua libertà di espressione”. “Non sono un criminale”, ha aggiunto.

Lo scambio col giudice è stato l’unico momento a cui allo studente dell’Università di Bologna è stato permesso di lasciare la gabbia e le manette: “Chiedeva con impazienza al giudice di porre fine alla custodia cautelare” continua L. “Il giudice avrebbe potuto, ma non lo ha fatto. Ha concluso aggiornando l’udienza al 28 settembre e noi tutti ci auguriamo che la prossima volta avremo buone notizie, che venga liberato. E’ assurdo subire un processo penale per un articolo in difesa dei diritti delle persone”.

L. conclude: “Zaki è stato poi velocemente riportato via dagli agenti. Non ha avuto un solo momento per scambiare una parola con la sua famiglia oppure con noi. Ci siamo solo scambiati dei rapidi sguardi di saluto. In realtà non gli hanno dato tempo neanche per un colloquio privato con gli avvocati”.

IL GIURISTA: CON ZAKI IL GOVERNO AL-SISI FA PROPAGANDA

“Il processo di Patrick Zaki rientra in una azione di propaganda che da qualche tempo il governo del presidente Al-Sisi sta portando avanti per smarcarsi più facilmente da chi all’estero lo accusa di perseguitare gli attivisti. Accusare Patrick di fake news appare quindi un modo più semplice per condannarlo, rispetto all’accusa di terrorismo. Ciò non toglie che i due articoli del codice penale che gli vengono contestati siano incostituzionali, così come la natura del tribunale dove si celebra il processo: è una corte d’emergenza che impedisce ai condannati di fare ricorso in appello”. A poche ore dalla fine della prima udienza del processo a Patrick Zaki, l’agenzia Dire dialoga con Muhammad Ebaid, esperto legale e analista per Egypt Wide e responsabile progetti presso l’Egyptian Commission for Rights and Freedoms.

Dopo 18 mesi di detenzione cautelare, in cui sembrava che a Zaki venisse contestato il reato di “sedizione” che ricade nella legge sull’anti-terrorismo – e che può costare una condanna fino a 25 anni di galera – lo studente dell’Università di Bologna è stato infine rinviato a giudizio per diffusione di false notizie nel Paese e all’estero, a causa di un articolo in cui difendeva i diritti della minoranza copto-cristiana a cui lui stesso appartiene. E’ stato quindi deferito al tribunale per i reati penali minori di Mansoura, sua città di residenza. Per l’esperto, però, “è solo perché ha lì la residenza. Se dovesse essere condannato, potrebbe essere riportato al carcere del Cairo”.

Quindi Ebaid chiarisce: “E’ una cosa abbastanza normale che la procura per la sicurezza nazionale contesti a oppositori e attivisti i reati di anti-terrorismo, ma poi la procura stessa e perfino il giudice fino a un minuto prima dell’inizio del processo possono cambiare reato e citare altre leggi, e di solito succede così. Il problema è che le due leggi che Zaki avrebbe violato sono incostituzionali perché non solo violano la libertà di espressione, ma contengono espressioni e parole incoerenti e in contrasto col linguaggio del diritto penale”.

Il ricercatore cita a titolo di esempio l’accusa di “diffondere paura tra le persone”, oppure le espressioni come “potrebbe sembrare che” o “potrebbe essere possibile che”, contenute in queste leggi. Per Ebaid, “siamo di fronte alla stessa incoerenza del reato di ‘violazione dei valori familiari’ che ha portato in carcere alcune giovani influencer, solo perché pubblicavano video su Youtube, Instagram e TikTok”.

Sarebbe però prematuro fare ora previsioni sull’esito del processo: “Il caso Zaki ricorda però quello di Ahmed Samir Santawi, a cui sono stati contestati gli stessi reati”. Ebaid si riferisce allo studente della Central European University di Vienna, condannato a quattro anni dopo quasi sei mesi di detenzione cautelare sempre a causa di articoli “lesivi” della stabilità dello Stato, perché trattava il tema dell’aborto rispetto alla religione islamica. Una vicenda che presenterebbe forti analogie col caso Zaki: entrambi impegnati per i diritti umani, entrambi ricercatori all’estero.

“Ciò che è certo è che il governo egiziano vuole dimostrare al mondo che rispetta le libertà” conclude il giurista. “Lo dimostra un documento pubblicato pochi giorni fa dal titolo ‘Strategia nazionale per i diritti umani’: 70 pagine di bugie e propaganda, che spende tante parole in difesa di valori che in Egitto non esistono”.
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