No a specializzazioni in vitro

Si pensa che i filosofi vivano con la testa per aria. La piccola servetta che attingeva acqua dal pozzo si mise a ridere quando Talete inciampò su una pietra e cadde rovinosamente per terra. «O Talete», gli disse, «tu guardi le stelle, ma non vedi il sasso che sta davanti a te». La filosofia nacque subito grande e si pose immediatamente il problema del rapporto tra la parte e il tutto, a costo di inciampare su qualche pietra. Chi con minuziosa cura coltiva il suo piccolo giardino, recintato con alte mura, non si avvede dei dirupi incombenti e dei fiumi precipitosi che lo circondano minacciosamente. È lo sguardo rivolto al tutto, all’universo (unus vertere, guardare tutto insieme) l’unico sguardo che rassicura e riesce a raccogliere in unità il molteplice empirico. Proprio per questo Ortega y Gasset concludeva che la massima specializzazione equivale alla massima ignoranza. Orbene, come inserire queste rapide riflessioni nel dibattito in corso sulla specializzazione all’interno della professione del commercialista? Noi stiamo assistendo, dopo il trentennio d’oro, finito al crepuscolo del secondo millennio, a una erosione e a un logoramento della nostra professione, che devono indurci a un profondo ripensamento del suo ruolo e dei compiti dei suoi organismi dirigenziali. Un vecchio e colto professore di Tecnica professionale soleva dire che il commercialista si pone accanto alla «scelta imprenditoriale» (e ci insegnò a leggere Schumpeter) e, quindi, il suo sapere riguarda tutto ciò che quella scelta coinvolge. È lì il cuore pulsante della nostra professione, la pianura da cui tutto proviene, sia che si tenga una semplice contabilità, sia che si partecipi ai consigli di amministrazione di importanti società o ci si occupi della fase patologica di una impresa. Ed è lì che bisogna ritornare, prima di inerpicarci su sentieri di cui non si conosce lo sbocco. Per far questo occorre preliminarmente recuperare l’antica cultura ragionieristica e comprendere fino in fondo che la ragioneria è quella tecnica (scienza?) che studia la gestione delle imprese, rileva i fatti amministrativi, li ordina e li rappresenta nella loro sintesi significativa. Certo, sono arrivati gli Ias, introdotti in modo quasi surrettizio nel nostro ordinamento giuridico, la cui interpretazione è stata lasciata ai sacerdoti delle società di revisione. Sta a noi reinnestarli nell’albero ancora vivo della nostra risalente sapienza contabile e mostrare che il «vizio anglosassone», la pretesa, cioè, di voler fermare i fatti con le parole, gira a vuoto, se il loro continuo divenire non viene fermato concettualmente, riconducendolo sul terreno solido di una tradizione che non ha mai perso la sua vitalità. È questa la nostra autentica e originaria «specializzazione» ed è questo lo snodo cruciale su cui va indirizzata la formazione (attraverso approfondimenti, libri di testo, seminari, relazioni ecc.) la quale non dovrebbe ridursi ad una disattenta partecipazione ai corsi, ma dovrebbe anche attestare la qualità della preparazione conseguita. La riacquisizione di una vasta cultura contabile, che ormai si è estesa alla predisposizione degli strumenti previsionali (budget finanziario, economico, patrimoniale, contabilità dei costi ecc.), è diventata l’elemento discriminante tra una professione che ha come punto di riferimento l’impresa e una professione semplicemente giuridica. Con questo non voglio dire che la cultura giuridica non sia importante, anzi lo è senz’altro, giacché chi sta accanto alla «scelta imprenditoriale» non può semplicemente affidarsi a un legale, e lo dico con tutto il profondo rispetto che nutro per la professione forense, che è culturalmente lontano dalla realtà imprenditoriale e dalle sue esigenze strategiche. Nel diritto dell’impresa il rapporto che passa tra il commercialista e l’avvocato è, per lo più, lo stesso che corre tra diritto sostanziale e diritto processuale, tra il tutto e la parte. Anche qui occorre, dunque, che la formazione sia sistematica e ben orientata, non lasciata all’estemporaneità di qualche collega vanaglorioso (purtroppo, ce ne sono) e anche in questo caso vanno rilasciate attestazioni, pesando la qualità della preparazione giuridica realmente acquisita. E su queste basi che si ricostruisce la figura del commercialista come economista e giurista d’impresa, ritagliandogli un ruolo che rifugge ontologicamente da ogni posticcia specializzazione creata «in vitro». Certo, l’esperienza porta ogni giorno nuove esigenze e, quindi, al bisogno di nuove specializzazioni, a cui, però, la cultura del commercialista potrebbe e dovrebbe facilmente accedere, ma, invece, si creano barriere, giardinetti ben recintati, nuovi albi, registri, ecc…, che, di fatto, limitano la concorrenza: è la rinascita di un nuovo corporativismo per il quale l’iscrizione all’Albo dei commercialisti è diventata un mero prolegomeno. Essere commercialista, insomma, è una premessa: un triste destino per una professione così antica e gloriosa. Ed è a questo punto che entra in gioco il nuovo ruolo dell’ordine professionale. La nostra è una professione che non ha né può avere delle esclusive e, quindi, può far valere solo le sue competenze. Conseguentemente, l’Ordine deve uscire dalla dimensione burocratica in cui si è racchiuso e diventare il propulsore di tutte quelle iniziative che portino la professione a rioccupare i suoi territori. Non è semplice, e le cose vanno fatte una alla volta (come si dice, ogni giorno ha la sua pena) ma intanto è essenziale dotarsi di un autorevole centro per gli studi economici, che si esprima sulle grandi questioni economiche e fiscali del Paese. È questo il primo passo per riaccreditare la professione a livello nazionale, poi se ne devono fare molti altri, possibilmente stando lontano da viete logiche di sapore bizantino.

di Paolo Salvadori

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