Nella Giornata dei fratelli la storia di Francesca: “Per un sibling è difficile vivere una vita normale”

ROMA – “Ci sono voluti anni prima che riuscissi a parlare dei problemi di salute di mia sorella e anche oggi, che riesco a farlo e riesco anche ad aiutare altre persone che hanno un familiare con disabilità, non è facile e non faccio venire mai nessun amico in casa, a eccezione della mia migliore amica, con la quale ci conosciamo da quando avevamo 2 anni”. Francesca ha 17 anni, frequenta la quarta liceo scientifico a Milano ed è una sibling, la sorella di una bambina con gravi problemi di salute. Oggi si celebra la Giornata europea dei sibling e Francesca ha accettato di raccontare all’agenzia Dire la sua storia, che si intreccia strettissima con quella di sua sorella.

“Roberta ha 6 anni ed è arrivata quando mio fratello Andrea aveva 13 anni e io 12, quindi stavo finendo le scuole medie e iniziavo il liceo. Eravamo nel pieno della nostra adolescenza e le tante difficoltà legate alle condizioni di salute di nostra sorella hanno complicato un periodo della vita di per sé non facile. In quegli anni non sapevo con chi parlare, a chi raccontare come mi sentivo, perché da un lato i miei coetanei avevano i problemi dell’adolescenza, dall’altro i miei genitori dovevano gestire i problemi di salute di Roberta. Inoltre, per molto tempo, ho avuto difficoltà proprio a parlare in generale di questo aspetto della mia vita, non mi sentivo pronta, non mi sentivo capita da nessuno. Questo mi ha costretta a crescere prima dei miei coetanei e a non potermi permettere cose che per gli adolescenti sono normali. La salvezza è stata la presenza di mio fratello, anche se neanche con lui parlavamo di quello che stava succedendo”. Francesca ci racconta che Roberta è nata con una malattia genetica rara, la displasia campomelica acampomelica che le causa difficoltà respiratorie, per cui è tracheotomizzata; difficoltà a deglutire, per cui è nutrita tramite un sondino, e una grave forma di scoliosi, per cui indossa un corsetto che la sostiene nel camminare. Dal punto di vista cognitivo, però, è una bambina come tutte le altre e per questo, spiega la sorella, “vorrebbe sempre camminare e fare tutto quello che fanno i bambini della sua età, ma ovviamente non riesce soprattutto perché si stanca, in particolare a livello respiratorio per cui alla sera è sempre attaccata al ventilatore. Per questo abbiamo richiesto anche una carrozzina per lei, ma la usa pochissimo. Ha iniziato a parlare da poco, ma perché per tutto il tempo in cui è stata in ospedale aveva difficoltà anche respiratorie. Con mio fratello- ricorda Francesca- non abbiamo visto Roberta per i primi otto mesi dopo la sua nascita perché era ricoverata in ospedale. In quel periodo mio papà, che si occupava di me e mio fratello mentre nostra madre era in ospedale con Roberta, non ci raccontava nulla delle sue condizioni di salute, degli interventi che lei stava subendo. Solo di recente con Andrea abbiamo iniziato a occuparci di Roberta, abbiamo imparato a fare alcune medicazioni, se ci sono emergenze ci siamo e questo ci permette anche di alleviare un po’ il lavoro di cura ai nostri genitori e lasciare loro magari una serata libera”.

Non è stato un percorso semplice quello che ha portato Francesca a questa consapevolezza e sicurezza: “Sono cose che sono arrivate solo di recente e molto grazie all’associazione fondata dai miei genitori, attraverso cui ho scoperto che ci sono tante persone nelle nostre condizioni. Più difficile-spiega- è invece trovare altri sibling come me e mio fratello, sembrano introvabili e molto spesso non si fanno trovare, si vergognano, non se la sentono di parlare”.

Un aspetto della vita di Francesca che ha molto risentito dell’arrivo di una sorella malata è stato quello delle amicizie. “Mi sono ritrovata a lasciare gli amici delle scuole medie e a fare nuove amicizie proprio mentre arrivava Roberta. Alcuni amici non capivano perché io non uscissi sempre e io faticavo a spiegare che avrei potuto anche farlo, ma non me la sentivo perché mi sentivo in colpa nei confronti dei miei genitori che erano in casa a occuparsi di mia sorella e da quando c’è lei hanno pochissimi momenti di svago. Per questo, spesso, io ho scelto e scelgo di non uscire per rimanere a casa e dare una mano. I miei amici non sono mai venuti a casa, un po’ perché non ho mai saputo come spiegare loro la situazione, un po’ perché da parte di molti di loro vedo poco interesse, un po’ per proteggere Roberta che ha comunque una via respiratoria aperta e dobbiamo stare attenti a chi viene da fuori”. Come se lo immagina il suo futuro un sibling?

“Non so come sarà. Il senso di responsabilità grava su me e mio fratello, anche se non siamo i care giver di Roberta, e ci condiziona nel pensare al nostro futuro. Qui in casa lo diciamo sempre, si vive alla giornata. A me sarebbe piaciuto studiare all’estero, ma non posso pensare di lasciare la mia famiglia per andare a studiare lontano. Ad oggi, so solo che mi piacerebbe diventare un medico. È un’idea che avevo anche prima che arrivasse mia sorella e con la sua presenza si è rafforzata. Ma proprio perché viviamo giorno per giorno, non sono sicura che resterò di questa idea fino al prossimo anno. Avere gli infermieri in casa mi ha aiutata a capire tante cose di questo mondo, ma magari potrei stancarmi e decidere di fare altro”.

“Oltre a mia sorella, la cui prospettiva di vita è molto incerta (è arrivata a 6 anni e all’inizio le davano 2 anni), c’è anche l’associazione fondata dai miei genitori. Chi se ne occuperà in futuro? Loro hanno trovato la forza di fare tutto questo perché hanno avuto la loro giovinezza. Mio fratello e io non abbiamo avuto l’adolescenza di tutti gli altri e questo nemmeno i miei genitori possono capirlo. Non sono sicura di riuscire a farcela”, racconta.

“Per me- confida infine Francesca- lo studio è stato spesso un rifugio, una valvola di sfogo per lo stress. Per mio fratello, invece, non è stato così, l’ha vissuta come uno stress aggiuntivo. Questo anche perché a scuola c’è poca sensibilità nei confronti delle nostre esigenze di sibling, i professori, i dirigenti non sono così attenti alle ragioni per cui magari dobbiamo uscire prima o non siamo riusciti a studiare. Ci vorrebbe tanta sensibilità in più, ce n’è un po’ ma non basta”, conclude.

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