Algeria, il giurista: “Accordi sul gas non frenano i migranti”

ROMA – “Gli algerini non chiedono al governo italiano che li consideri tra i suoi principali interessi nazionali, però vogliono ricordargli che non si possono stringere accordi con un Paese senza considerare il deterioramento delle condizioni di vita del popolo che lì ci vive. In Algeria oggi si può finire in prigione per un like su Facebook, mentre le condizioni economiche della classe media sprofondano. Gli Stati sono interconnessi quindi l’instabilità dell’Algeria raggiunge anche la sponda nord del Mediterraneo: è evidente con le partenze di migranti dalle coste algerine”.

Mouloud Boumghar è professore di Diritto residente in Francia e per l’agenzia Dire commenta la recente visita del presidente Abdelmadjid Tebboune a Roma, dove è stato ricevuto dall’omologo Sergio Mattarella e dal premier Mario Draghi per rilanciare il partenariato energetico, mentre Eni siglava un nuovo contratto sul gas. Un riavvicinamento che è conseguenza della guerra russo-ucraina e dell’embargo che l’Ue ha imposto al gas e al petrolio russo, e che spinge i Paesi membri a rivolgersi ad altre nazioni per soddisfare il proprio fabbisogno energetico.

Il docente però denuncia: “Nel mio Paese esiste un regime autoritario retto da un presidente salito al potere senza legittimità elettorale, sostenuto dalle Forze armate e da una classe politica basata su favoritismi e corruzione che sopravvive proprio grazie ai proventi della vendita di gas e petrolio”. Boumghar rilancia le istanze di “Hirak”, che significa “movimento” in arabo: si tratta della formazione popolare di piazza che si formò nel 2019 per chiedere le dimissioni dell’allora presidente Abdelaziz Bouteflika – al potere da 20 anni e pronto a ricandidarsi – e una virata del Paese verso elezioni credibili e la democrazia.

“La gente in quei mesi aveva ritrovato la speranza- continua il docente- e questo, nel concreto, emerse dal fatto che le partenze di migranti dalle coste algerine erano diminuite nettamente. Dal cambiamento politico, le persone credevano che sarebbe seguito un cambiamento economico con nuove opportunità di lavoro e benessere per giovani e famiglie. Non appena quella speranza è naufragata, sono ricominciate anche quelle partenze che rappresentano un problema per i Paesi europei (nonché per l’Algeria stessa)”.

Se da un lato l’Algeria è ricca di risorse naturali, dall’altro la redistribuzione delle risorse “riguarda il regime e i suoi affiliati”, secondo Boumghar. Che avverte: “In Algeria non esiste una politica economica che permetta all’economia di non essere così dipendente dalle esportazioni di petrolio e gas naturale o dalle importazioni di grano”. Rispetto a quest’ultimo punto Boumghar sottolinea.

“La guerra in Ucraina, ha determinato un’impennata dei prezzi dei beni alimentari, in Algeria come altrove, e da noi lo Stato ha risposto vietando l’esportazione di molti prodotti. Ricorrere a misure come questa non è un problema in sé, se fossero accompagnate da investimenti nei vari settori economici tra cui prima di tutto l’agricoltura, che potrebbe offrire le maggiori opportunità di crescita e lavoro per l’Algeria. Le autorità però non lo fanno, così come non chiariscono in che modo vorrebbero rinegoziare l’Accordo di libero scambio con l’Ue (risalente al 2005, ndr), quando proprio a causa del suo deficit produttivo spesso l’Algeria si ritrova ad esportare più di quanto importa”.

Secondo il professore, per frenare il disavanzo nella bilancia commerciale allora Algeri fa scattare misure restrittive agli scambi, una scelta su cui l’Ue nel 2018 ha espresso apertamente “preoccupazione”. Un altro grande problema, avverte Boumghar, è che “esiste una forte repressione contro coloro che criticano le politiche del governo e in particolare non si permette di approfondire il dibattito, di analizzare i problemi”.

Come sostengono vari analisti, per scongiurare il ripetersi delle rivolte popolari del 2019 Tebboune ha approvato una legge del codice penale che, come conferma anche Boumghar, “ha esteso la definizione di terrorismo, rendendola più vaga, per cui oggi chiunque contesti le istituzioni o segnali dei problemi rischia di essere arrestato e processato per attività terroristica o appartenenza a gruppo terrorista”. Almeno 300 persone sono dietro le sbarre in attesa del processo, ma “sicuramente il numero è più alto- avverte Boumghar- perché nei villaggi o nelle regioni più lontane dai grandi centri è più difficile per le organizzazioni dei diritti umani o gli avvocati monitorare i casi giudiziari, che spesso non vengono neanche notificati”.

Come quello di Hakim Debbazi, 55 anni, un membro dell’Hirak arrestato a febbraio per dei post su Facebook in cui contestava il governo, trovato morto in carcere il 24 aprile. “Le autorità hanno riferito che il decesso è sopraggiunto per cause naturali, ma nessuna inchiesta è stata aperta e la famiglia Debbazi non sa cosa sia successo” denuncia il professore. “Potrebbe anche essere deceduto per aver ricevuto cure tardive, o per non averne ricevute affatto”.

Oltre a seminare un “clima di paura” che raggiungerebbe anche i dissidenti all’estero, come denuncia un recente report dell’ong americana Human Rights Watch, le autorità algerine secondo Boumghar stanno prendendo di mira anche i partiti di opposizione: “Quelli apertamente legati all’Hirak hanno visto le loro attività sospese, oppure sono sotto minaccia di scioglimento”. Tra questi, l’Unione per la democrazia (Upd) e il Fronte algerino democratico (Fad), accusati di aver violato la legge sulla registrazione dei partiti politici. Sono a rischio anche il Partito socialista dei lavoratori (Pst) e l’Unione per il cambiamento e il progresso (Ucp). L’Unione per la cultura e la democrazia (Rcd) ha ricevuto un’ingiunzione, mentre l’Unione azione giovanile (Raj), che è un’associazione culturale con finalità politiche, è stata sciolta in prima istanza e il Consiglio di Stato sta esaminando il ricorso.

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