Il peso del cuneo fiscale per i lavoratori dipendenti e autonomi

La richiesta di riduzione del cuneo fiscale e contributivo, interpretata anche come la differenza tra lo stipendio netto in busta paga e il costo sostenuto dall’azienda, è ormai diventata un “mantra” recitato con grande frequenza dalla politica, dai media e dalle parti sociali. Si parla apertamente di un’insostenibile differenza tra quanto prende il lavoratore e quanto costa all’azienda proponendo come soluzione la riduzione delle imposte, cioè dell’IRPEF che grava su redditi e salari delle persone fisiche.

Ma siamo sicuri di aver centrato bene il problema? La differenza è così grande? E giusto ridurre a tal punto le imposte senza porsi il problema di chi poi pagherà la sanità, la scuola, la manutenzione del Paese Italia, e così via?

Iniziamo con il primo punto: quanto pagano di IRPEF gli italiani (dipendenti e autonomi)? Dai dati elaborati da Itinerari Previdenziali nell’Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate 2019 dedicato all’analisi delle dichiarazioni dei redditi ai fini IRPEF e delle imposte dirette si ricava che su 41,2 milioni di dichiaranti, i lavoratori dipendenti sono 20,93 milioni, cioè il 50,8%, e che versano, al netto del bonus da 80 euro (il quale vale circa 9,55 miliardi l’anno), 77,156 miliardi su 155,15 miliardi totali (pari al 49,7%). Con redditi da zero fino a 7.500 euro troviamo 4,12 milioni di dipendenti che hanno un’IRPEF negativa; il secondo scaglione, cioè quanti dichiarano tra 7.500 e 15.000 euro, conta 4,15 milioni di lavoratori dipendenti che, per via delle deduzioni e detrazioni e del bonus, hanno un’imposta negativa. In sostanza, i primi 8,27 milioni – cioè il 40% – non pagano l’IRPEF. E si tenga conto del fatto che a ogni dichiarante corrispondono 1,468 abitanti (siamo oltre 60 milioni) che, in genere, sono a carico del contribuente.

Quelli che dichiarano tra 15 e 20mila euro sono quasi 3 milioni e pagano un’IRPEF media di 1.237 euro che, con circa mezza persona a carico (ovviamente è una media; nella realtà si va dai single a famiglie più numerose), diventa pari a 843 euro; se il lavoratore avesse due persone a carico (ad esempio, moglie e figlio), per la sola sanità questa famiglia costerebbe allo Stato 5.634,48 euro, (1.878,16 euro pro capite), un quoziente familiare ante litteram a fronte di un’imposta versata di 1.237 euro. Ma si dirà, questa famiglia paga anche le imposte indirette e le accise. Vero, tuttavia sulla base del reddito mediano varrebbero non più di 2.000 euro, quindi ancora insufficienti. È giusto ridurre l’IRPEF a questi lavoratori? E chi pagherà per loro?

Il successivo scaglione di redditi (tra 20 e 35mila euro) è il più numeroso con oltre 7,26 milioni che pagano un’IRPEF media di circa 4.000 euro, mentre quello da 35 a 55 (limite massimo dichiarato dalla politica per non “favorire i ricchi”; si veda ad esempio Luigi Di Maio) supera i 10.700 euro. Poi ci sono i 770mila (il 3,73%), come si vede dalla tabella, che dichiarano più di 55mila euro e che versano il 34,67% di tutta l’IRPEF e una percentuale ancora più alta di imposte indirette. I veri “tartassati” dal fisco sono quelli da 35mila euro dichiarati in su: pagano I’IRPEF per un valore che da 10mila  a oltre 28 mila euro. L’imposta pagata da ciascun contribuente con oltre 300mila euro di reddito equivale a quella di ben 229 lavoratori tra 15 e 20mila euro, mentre è impossibile il confronto con i redditi da 7.500 a 15.000 euro che mostrano addirittura imposte negative; tra 100mila e 200mila (100mila euro lordi sono meno di 53mila euro netti) ne pagano 40 volte.

Dichiarazioni dei redditi ai fini IRPEF 2018, lavoratori dipendenti

Da questo primo screening emerge che, applicando la flat tax, i primi 8,27 milioni non ne beneficerebbero perché sono in negativo, i successivi 3 milioni circa neppure perché l’imposta media è inferiore al 15%, mentre gli unici beneficiari sarebbero i 7,25 milioni di lavoratori tra i 20 e i 35mila euro di reddito dichiarato che, avendo un’aliquota media del 18,7%, risparmierebbero il 3,7%, e gli 1,6 milioni di lavoratori tra i 35 e i 55mila euro che oggi hanno un’aliquota media del 25% e risparmierebbero molto. Il costo dell’operazione? Non meno di 20 miliardi. 

È sostenibile ed equo favorire 8,8 milioni di contribuenti su 40?  E chi ci mette i soldi visto che per finanziare il solo welfare italiano già oggi occorrono tutte le imposte dirette? Le stesse considerazioni valgono per i lavoratori autonomi. La via della riduzione del cuneo fiscale pare impossibile per i costi e, in alcuni casi, anche ingiusta e non equa perché si ottengono prestazioni dallo Stato senza alcuna contropartita scaricando su altri questi costi. Facile a dirsi difficile a farsi, salvo introdurre il “contrasto di interessi” che migliora le entrate fiscali di oltre il 10% e fa pagare le tasse ai milioni che non le pagano.

Vediamo ora il cuneo contributivo partendo da un esempio: un lavoratore fino a 25mila euro di reddito prende 100 in busta paga, paga il 9,2 % circa in contributi e sui restanti 90,8 circa il 15% di IRPEF (con deduzioni e detrazioni medie); gli restano 77,18 ma, con le tasse, non si è pagato neppure la sanità, figurarsi la scuola per i figli e tutti i servizi forniti dal pubblico. Al datore di lavoro questo lavoratore costa circa 130 per via dei contributi previdenziali versati all’INPS (23,8), per le prestazioni temporanee all’INPS (malattia, maternità, disoccupazione etc.) e all’INAIL per l’assicurazione contro gli infortuni. La differenza tra netto e costo azienda è pari a 1,67 volte.

Prima domanda: è riducibile questo cuneo contributivo? La risposta è no! Se si vogliono ridurre i contributi previdenziali, a parte la copertura finanziaria per il periodo iniziale, bisogna però dire al lavoratore che la sua futura pensione non sarà più pari al 72% dell’ultimo reddito, ma minore in funzione della riduzione contributiva. Fattibile? No! Seconda domanda: possiamo ridurre le grandi conquiste sociali che garantiscono un salario se uno si ammala o diviene inabile o invalido o disoccupato? No, quindi anche i contributi per le prestazioni temporanee e l’INAIL non si possono ridurre. Il difetto di questo “mantra” del cuneo fiscale e contributivo sta tutto qui: non si può ridurre la pensione, così come non si possono ridurre le prestazioni sociali. Certo, per quelli da oltre 35mila euro di reddito in su si potrebbe ridurre l’IRPEF di qualche punto percentuale, ma chi lo va a dire agli elettori? Chi baratta i voti di circa 2,5 milioni di elettori per gli altri 37 milioni?

Ma poiché la differenza tra il netto in busta paga e il costo azienda arriva a 2,2 volte, vediamo dove vanno questi soldi. Prendiamo ad esempio il contratto commercio e servizi. Su ogni ora lavorata occorre caricare i costi di alcuni “istituti” per usare il gergo sindacale, di cui beneficiano i lavoratori, vale a dire: la tredicesima e la quattordicesima mensilità, il premio di risultato previsto nei contratti territoriali o aziendali (circa mezza mensilità), il TFR (in pratica, una mensilità), le ferie e le festività (tra 21 e 27 giorni lavorativi, quindi più di un mese); a questi “istituti” vanno poi aggiunti i costi per l’adesione al fondo di assistenza sanitaria integrativa e quelli per il fondo pensione. In totale il nostro 1,67 volte passa a 2,2 volte. È persino evidente che su questo terzo fronte sia assai complicato ridurre il costo del lavoro, ovvero la distanza tra quanto il lavoratore riceve in busta paga e quanto costa all’azienda. Ma parlare di netto in busta paga e di differenza con il costo azienda è fuorviante perché, tranne l’IRPEF, tutto il resto va a beneficio del lavoratore, in modo diretto (i soldi della tredicesima e quattordicesima mensilità, il TFR, il premio di risultato) o indiretta (fondo pensione, assistenza sanitaria, contributi all’INPS, assicurazioni sociali e così via). Ma se ci pensiamo bene anche l’IRPEF va a beneficio del lavoratore e della sua famiglia se non altro per sanità, scuola etc.

Sarebbe allora una proposta educativa e utile mandare a tutti i contribuenti un prospetto di quanto hanno versato nell’anno e quanto hanno ricevuto in servizi: ci si accorgerebbe che il “mantra” dell’abbassare le tasse vale forse per meno del 30% della popolazione, quella che le paga per tutti, ma che il governo esclude da qualsiasi agevolazione.

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