Perdono il lavoro per occuparsi dei familiari con sindrome di Down, succede a oltre il 16% dei caregiver

‘Conoscere per agire’ è questo il filo conduttore della ricerca ‘Non uno di meno’ realizzata da Censis e Aipd per fotografare, in mancanza di un’indagine sistematica a livello nazionale, la condizione delle persone con sindrome di Down in Italia. La ricerca, presentata questo pomeriggio nella sede del Cnel, a Roma, è stata condotta su un campione nazionale di 1.192 caregiver di persone con sindrome di Down con l’obiettivo di ottenere una migliore e aggiornata conoscenza dei bisogni, del rapporto con i servizi disponibili sui territori di residenza e del relativo grado di soddisfazione.

Innazitutto l’impatto sul lavoro. Il 50,3% dei caregiver intervistati è costituito da lavoratori e di questi, il 22,4% dichiara di aver dovuto ridurre il lavoro, mentre il 16,7% ha lasciato il lavoro o lo ha perso e il 14,6% ha dovuto rinunciare alle possibilità di carriera. L’indagine precisa che si tratta, però, di un impatto fortemente differenziato per genere, dal momento che il 59% delle caregiver ha sperimentato almeno un cambiamento sul lavoro contro il 30,4% dei maschi.

Su quale forma di sostegno i genitori hanno potuto contare, soprattutto nei primi tempi l’aiuto più citato è quello legato al sostegno reciproco all’interno della coppia genitoriale (37,4% degli intervistati), ed è una percentuale simile (35,1%) che richiama l’affetto e l’aiuto della famiglia più allargata e degli amici. Il 27,2% cita la normalità della vita quotidiana con il bambino ed il 24,1% le informazioni fornite dai medici, certamente fondamentali per affrontare le incertezze del futuro di fronte alla nuova situazione.

PEDIATRA E MEDICO DI FAMIGLIA I PUNTI DI RIFERIMENTO

In merito al rapporto con i medici, l’indagine ha messo in evidenza come pediatra e medico di base rappresentino i due punti di riferimento principali nella presa in carico delle persone con sindrome di Down, mentre non esercitano tale ruolo, se non parzialmente, il neuropsichiatra infantile e poi marginalmente lo psichiatra e il neurologo. E’ ben il 63% delle famiglie a dichiarare di avere un punto di riferimento unico che segue/coordina gli interventi di salute della persona con sindrome di Down, quota che sale al 71,4% nel caso dei più piccoli e all’81% nel caso di coloro che hanno almeno 45 anni e si abbassa al 55,3% nella fascia di età 15-24, che è spesso quella di passaggio dalla presa in carico del pediatra a quella del medico di medicina generale.

La maggioranza del campione vive in un ambito familiare, soprattutto con i genitori (55,3%) o anche con genitori e fratelli (36,6%), a seconda dell’età: tra i più ‘anziani’, è significativa la percentuale di chi vive con i fratelli e/o la loro famiglia (26,2%). Solo l’1,2% vive in una struttura residenziale, ma la percentuale sale con il crescere dell’età, raggiungendo il 5% per gli over 44.

Per quel che riguarda il percorso riabilitativo, la quota di casi che attualmente effettua neuro e psicomotricità è elevata tra le famiglie con bambini più piccoli (84,4%) e scende già nella fascia di età successiva (7-14 anni) (29,0%), per diventare residuale già a partire dai 15 anni. Ancora maggiore nel caso dei bambini da 1 a 6 anni è la quota di chi fa logopedia (88,2%), mentre il 21,2% fa fisioterapia. Già a partire dai 15 anni, la quota di chi non fa interventi diventa ampiamente maggioritaria. Nelle fasce d’età intermedia, circa il 10% riceve un intervento di psicoterapia e/o terapia occupazionale, mentre, tra chi ha 45 anni e più, il 13,1% fa fisioterapia. Elevate le percentuali di famiglie che usufruiscono di questi servizi in ambito privato: circa la metà dei casi per quel che riguarda logopedia, fisioterapia, terapia occupazionale e oltre il 70% per la psicoterapia. Si tratta prevalentemente di famiglie del Nord Italia, dove l’offerta tende a essere più ampia e le famiglie con maggiori disponibilità economiche.

OLTRE LA SCUOLA

Per quanto riguarda gli interventi educativi extra-scolastici, il 42,9% delle persone con sindrome di Down coinvolte nell’indagine usufruisce di interventi rivolti allo sviluppo delle autonomie, quota che diventa maggioritaria nella fascia di età 15-24 anni. Solo il 5,7% usufruisce di interventi di recupero delle attività scolastiche, con percentuali più alte (16,7%) per la fascia di età 7-14 anni. La quota di chi non usufruisce di nessun intervento di questo tipo è maggioritaria nelle fasce d’età più elevate: 52,1% per la fascia 25-44 anni, addirittura il 74,9% dopo i 45 anni.

QUALI DIFFICOLTA’ INCONTRANO LE FAMIGLIE NELL’ACCESSO AI PERCORSI RIABILITATIVI E/O EDUCATIVI?

Il 61,1% segnala la difficoltà a orientarsi nell’offerta e la necessità di trovare autonomamente la struttura o il personale, mentre il 53,1% riferisce la necessità di rivolgersi a strutture private a pagamento. Poco meno della metà del campione lamenta di aver potuto cominciare la logopedia e/o l’intervento educativo presso i servizi pubblici non prima del compimento dei tre anni. A questi si associa il 22,8% che ha dovuto rinunciare o ridurre la terapia e/o gli interventi per ragioni di costo economico, o di difficoltà logistiche (ad es. il centro era troppo lontano). Infine il 20,3% ha dovuto rinunciare ad un centro gradito per la carenza di posti disponibili.

Per quanto riguarda la vita affettiva e sentimentale, il 24,4% delle persone Down ha una relazione affettiva, quota che sale al 38,0% nella fascia di età 25-44 anni. Drasticamente più bassa è invece la quota di chi ha una relazione sessuale: appena il 2,5%, che si alza al 4% circa tra coloro che hanno dai 25 ai 44 anni.

COME VEDONO I CAREGIVER IL FUTURO DEI PROPRI FIGLI?

La possibilità di una vita autonoma o semiautonoma è nella mente soprattutto dei genitori dei bambini 0-6 anni (55,1%) e 7-14 anni (44,6%), come pure, seppur in misura minore, dei ragazzi 15-24 anni. La fiducia diminuisce drasticamente tra i genitori degli adulti: il 32,8% dei 25-44 enni pensa a un futuro autonomo o semiautonomo per il proprio figlio (il 38% pensa a una permanenza in famiglia), ma la percentuale precipita a 4,3% tra i genitori degli over 44, per i quali prevale l’ipotesi della permanenza in famiglia (56,8%). Minoritaria la quota di chi pensa a un futuro in struttura (1,7%), con una quota più importante tra i genitori degli over 44 (14,9%).

Le difficoltà principali lamentate dalle famiglie riguardano l’integrazione nella scuola e nella società in generale (51,3%) e quelle ad orientarsi tra i servizi sociali e sanitari (48,1%). Anche tra i problemi nell’assistenza, il principale riguarda la difficoltà di capire a chi rivolgersi per ottenere i servizi (44,1%), ma anche la perdita di riferimenti e servizi nel momento in cui si esce dal servizio scolastico (38,1%).

Dal punto di vista dell’informazione alle famiglie, nell’indagine risulta fondamentale il ruolo delle associazioni, indicate dal 72,3% come i soggetti che più hanno fornito informazioni utili e supporto. Le associazioni sono, in questo senso, ritenute più efficaci degli amici (25,9%) e del medico (23,8%).

DOMANDA E OFFERTA DI SERVIZI

Il giudizio complessivo sull’offerta di servizi sul proprio territorio è piuttosto negativo; la valutazione più positiva, che indica la presenza sul proprio territorio di molte opportunità, sia nel privato che nel pubblico o in convenzione, è leggermente più elevata solo con riferimento ai servizi sanitari e riabilitativi (31,1%), mentre per quel che riguarda le altre tipologie – servizi socio-assistenziali, per l’inserimento professionale, per il tempo libero – sono sempre un po’più elevate le quote di chi afferma che ci sono poche opportunità, sempre e solo a pagamento intero (rispettivamente 26,6%, 30,0%, 37,7%).

Infine, alla domanda ‘Qual è la cosa più importante che dovrebbe fare la società per le persone con sindrome di Down, ben il 53,3% indica ‘Promuoverne l’autonomia e l’inserimento sociale e lavorativo’.

In merito al costo sociale della sindrome di Down l’indagine stima che il costo medio annuo per paziente risulta pari a 27.677 euro. In particolare, i costi diretti rappresentano il 15% dei costi complessivi mentre, i costi indiretti, per definizione a carico della collettività, rappresentano l’85% del totale: si tratta di costi sostanzialmente legati agli oneri di assistenza che pesano sul caregiver, che sono stati monetizzati e risultano pari a 23.513 euro all’anno.

Nell’ambito dei costi diretti, la quota più consistente pari a 1.220 euro (29,3% del totale dei costi diretti) è rappresentata da quelli sostenuti per l’attività socio-educativa. I costi indiretti (23.513 euro) sono stimati a partire dalle ore di assistenza indicate dagli intervistati, monetizzate considerando il costo medio orario di un infermiere sulla base del Contratto di lavoro del Servizio sanitario nazionale.
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