Professionisti in piazza il 30 novembre per la dignità del lavoro autonomo

Benzina sul fuoco (ardente) della battaglia degli Ordini professionali per ottenere il riconoscimento di un «equo compenso» per le prestazioni. E ciò che rappresenta la sentenza 4614/17 del Consiglio di stato per il mondo del lavoro autonomo, impegnato da mesi in un «pressing» incessante, in nome della «dignità» di tutti gli occupati non dipendenti: prima del pronunciamento sulla legittimità di un bando pubblico gratuito, il Comitato unitario delle professioni (Cup) e la Rete delle professionisti tecniche (Rtp), guidate da Marina Calderone e Armando Zambrano, hanno perorato in diverse sedi istituzionali la necessità di compiere un salto in avanti per inserire nell’ordinamento una norma per fissare soglie di remunerazione al di sotto delle quali non sia possibile scendere. «E l’art. 36 della Costituzione ad affermare che il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa», hanno chiarito. Nei due rami del Parlamento, i due presidenti delle Commissioni Lavoro (Maurizio Sacconi di Epi al Senato, Cesare Damiano del Pd alla Camera) hanno depositato altrettanti disegni di legge in materia di «equo compenso», tuttavia nella legge di Bilancio 2018 è appena approdato il testo del ministro della giustizia Andrea Orlando, che si propone di stabilire una giusta remunerazione per gli avvocati e dovrebbe servire da «base» per estendere il principio alle altre categorie. L’attenzione del Legislatore sulle sorti di chi esercita la libera attività, sembra, comunque, non essere latitante, in un anno, quello che va verso la conclusione, che ha visto a maggio pure l’approvazione del cosiddetto «Jobs act del lavoro autonomo» (legge 81/17). Rtp e Cup, però, non intendono far scorrere altro tempo, senza ottenere dei risultati. E, anche a seguito della sentenza del Consiglio di stato che «legittima di fatto gli enti pubblici a promuovere bandi senza compenso per il professionista e con la sola previsione del rimborso spese», col «rischio che per lavorare con una p.a. lo si debba fare necessariamente in modo gratuito», hanno deciso di promuovere il 30 novembre prossimo, a Roma, una manifestazione «a sostegno della dignità dei professionisti italiani». Nel contempo, il Parlamento non è rimasto indifferente alla decisione dei giudici sul bando del comune di Catanzaro. Il 19 ottobre, la vicepresidente della commissione Ambiente, territorio e lavoro pubblici di Montecitorio Serena Pellegrino (Si) ha posto la questione al governo che, attraverso il sottosegretario alle Infrastrutture Umberto Del Basso De Caro, ha sposato la tesi della sentenza: come «chiaramente esplicitato» dalla giustizia amministrativa, anche un affidamento concernente servizi a titolo gratuito configura un contratto a titolo oneroso, soggetto alla disciplina del Codice dei contratti pubblici»; pertanto, la «garanzia di serietà ed affidabilità» del professionista, se non primariamente legata al pagamento della prestazione, può avere, ha affermato, «analoga ragione anche in un altro genere di utilità, pur sempre economicamente apprezzabile, generata dal contratto stesso». Negli stessi giorni la questione della gratuità degli affidamenti pubblici era finita nel mirino di alcuni parlamentari del Pd, fra cui il deputato Francesco Ribaudo, che avevano chiesto conto al ministero del welfare della selezione avviata nell’agosto scorso dal comune palermitano di Piana degli albanesi per due assistenti sociali a tempo determinato, ma «elemento fondamentale» era la «totale gratuità» della prestazione, «stante la compresenza di stringenti vincoli di finanza pubblica che non permettono l’assunzione a pieno titolo della figura professionale in questione». La replica? «Trattandosi di terzo settore, si può anche escludere un lucro», ha riferito Ribaudo. E «allucinante», visto che «nella pianta organica il profilo di assistente sociale è previsto». Tuttavia, conclude, «si ritiene di non doverlo pagare».

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