Se i laureati non vogliono più svolgere la professione

Meno commercialisti, architetti e ingegneri industriali, e più ingegneri civili, farmacisti e veterinari. Cambia il mondo dei nuovi professionisti, che accedono agli albi attraverso gli esami di Stato organizzati dalle università. E le dinamiche offrono un termometro fedele dell’appeal chele varie professioni ordinistiche esercitano sui giovani in arrivo nel mondo del lavoro. A mettere in fila i numeri, nel primo rapporto sulle «Professioni nell’università», è l’Anvur, l’agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario. Lo studio offre un primo carotaggio sul tema, e punta a offrire un quadro di dati puntuale ai nuovi tentativi di far andare a braccetto gli studi universitari con la formazione professionale. Il modello, evocato sia dal presidente Anvur Andrea Graziosi sia da Gaetano Manfredi, che guida la conferenza dei rettori, è quello delle professioni sanitarie, dove i corsi di laurea e il tirocinio hanno un peso di fatto equivalente nel curriculum che porta al titolo. Ma questa idea di base, nelle intenzioni, può essere replicata su altri settori e in altri livelli. I dati del Rapporto, si diceva, interessano da vicino il mondo delle professioni oltre a quello dell’università. Per capirlo è sufficiente mettere insieme due fenomeni misurati dall’Anvur sulla base delle rilevazioni dell’ufficio di statistica del ministero. Il primo guarda al numero di studenti che scelgono le classi di laurea magistrale o a ciclo unico indispensabili per chi punta a un albo professionale. Questa prima mossa dell’indagine non mostra scossoni particolari: a questi corsi era iscritto nel 2016/2o17 il 79,6% della popolazione universitaria, contro l’48% registrato nel 2008/2009: una flessione del 2,2%, che però può essere archiviata come oscillazione congiunturale (i laureati in queste classi, 1174,6% del totale, sono nello stesso periodo cresciuti di due punti percentuali, grazie alla gobba di iscrizioni negli anni centrali del periodo considerato). Questo quadro di partenza rende ancor più significativo il -9,5% che tra 2010 e2015 si registra nell’accesso agli esami di Stato organizzati nelle università per l’accesso agli albi. In sintesi:gli studenti si iscrivono alle lauree che portano alle professioni, ma dopo il titolo scelgono sempre più frequentemente strade diverse da quelle che passano dagli ordini. Questa crisi delle vocazioni riguarda la maggioranza delle categorie. Caso per caso può avere spiegazioni diverse, che però si possono riassumere con la maggiore attrattività raggiunta da scelte alternative, spesso in azienda, rispetto alla libera professione tradizionale. Piccolo nei numeri, ma efficace nella sostanza, è il caso di ingegneria dell’informazione. Questa laurea apre le porte di uno dei settori più forti sul piano occupazionale, ma negli ultimi cinque anni monitorati i candidati all’esame di Stato sono crollati del 62,8%. Segno, evidente, del fatto che le prospettive in azienda accendono aspirazioni più forti rispetto a quelle del titolo professionale. Mutatis mutandis, le stesse tendenze si possono nascondere dietro alle dinamiche registrate in professioni più “grandi” sul piano numerico. È il caso in particolare dei dottori commercialisti, che hanno visto scendere di un quarto in cinque anni le file all’ingresso dell’albo; e un quadro simile arriva dagli architetti (-22,8% di iscrizioni agli esami di Stato). Ai commercialisti tocca anche il record negativo degli insuccessi all’esame: la promozione arriva al 48,2% dei candidati, contro il 79,3% della media complessiva alzata dai tassi quasi totalitari di successo dell’area medica. La frenata dei nuovi ingressi non esclude nemmeno le professioni che hanno un esame di Stato organizzato dal Miur fuori dalle università: questo panorama è dominato dagli avvocati, fra i quali l’accesso all’esame segna un -15,6% (in questo caso il confronto è fra 2011 e 2016). In senso opposto viaggiano solo categorie come i farmacisti, a cui i tentativi di liberalizzazione del mercato offrono spazi professionali aggiuntivi.

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