Conte picchia durissimo, Salvini va (quasi) ko ma tende la mano

“Avete scelto me come bersaglio? Eccomi”. Alla fine del suo intervento, per la verità debole e poco (co)ordinato, Matteo Salvini allarga le braccia, sembra il Cristo del Corcovado tra i banchi leghisti del Senato. Non prima, però, di lanciarsi una ciambella di salvataggio. Liofilizzando: io ci sto al taglio dei parlamentari, alla legge di bilancio da almeno 50 miliardi; e dopo si vada al voto. Non subito, dopo. Qualche settimana fa era subito, anzi subitissimo: un’inversione a ‘u’, una mezza marcia indietro, un tentativo di rimettere insieme i cocci di un rapporto frantumato per evitare la debacle? Onestamente era lecito aspettarsi qualcosa di diverso, persino qualcosa di più appuntito, dal capo del Carroccio. Il quale, per la verità, forse non immaginava che Giuseppe Conte si producesse in un attacco così chirurgico, così mirato, così senza paure, così misuratamente astioso, prima di recarsi al Quirinale per presentare le dimissioni.

Doveva essere il pomeriggio di Conte e, in effetti, con il trascorre dei minuti, lo diventa. Sono passati dodici mesi – era il 7 giugno 2018 – da quando il professore foggiano si rivolse al vicepremier Luigi Di Maio chiedendo, timoroso, “questo lo posso dire?”, per avere come risposta un secco “no”. Conte stavolta non chiede permessi, va giù dritto per la sua strada, si cuce addosso la figura dello statista e cerca di fare passare l’ex amico come un “inaffidabile”, un “irresponsabile”, un politico senza sensibilità, una persona a cui manca la “cultura delle regole”. Nell’ordine, gli accolla il fardello di una “crisi grave”, lo accusa di “perseguire interessi personali e di partito”, gli tira le orecchie per l’accostamento dei “simboli sacri alla politica”. Poi ancora lo rimprovera per non essersi presentato in Senato a dare conto dell’affaire russo e gli riprovera di avere “scarsa responsabilità istituzionale e una carenza di cultura istituzionale”. Ma la frustata più dolorosa la assesta quando parla della richiesta avanzata da Salvini di ottenere pieni poteri: “Questa tua concezione mi preoccupa. Come mi preoccupa quando invochi le piazze”.

Per la prima volta da quando è a Palazzo Chigi, Conte parla non da avvocato del popolo ma da Presidente del Consiglio: il paradosso è che siamo al passo d’addio. Non a caso, il senatore Renzi, l’altro Matteo, gli rinfaccia di essersi svegliato con 14 mesi di ritardo. Comunque sia, dicono che Conte sia in totale sintonia con il Quirinale, dicono che abbia voluto prepararsi il terreno per il dopo, cioè per il futuro prossimo, dicono che non ne potesse più da qualche mese. “Ho capito, presidente, che mi ha malsopportato per un anno”, la constatazione del vicepremier leghista. Ecco perché, probabilmente, è meglio finirla qui.

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