Di Benedetto: “Sangue trasfuso dà immunodepressione e recrudescenza nei pazienti oncologici”

ROMA – “Trent’anni fa le trasfusioni erano molto più liberali, ma eravamo ben consci, già allora, che un regime trasfusionale troppo liberale aveva un impatto più negativo di un atteggiamento conservativo. Valutavamo dal punto di vista clinico il recupero dei pazienti e spesso, ad esempio, nei fratturati di femore, nei grandi anziani, osservavamo che chi aveva una ridotta quantità di trasfusioni andava meglio nel post operatorio e la scienza nel tempo ci ha supportato”. È la professoressa Pia Di Benedetto, anestesista rianimatore con un’esperienza sul campo di trent’anni e oggi direttrice dell’UOC Coordinamento blocchi operatori del Sant’Andrea di Roma, intervistata dalla Dire, a spiegare i benefici della chirurgia e medicina senza sangue. È il suo primo incarico come anestesista al CTO, ospedale storico romano per i traumatizzati, pazienti fortemente anemizzati, a permetterle le prime osservazioni cliniche su questo campo allora inedito e guardato con sospetto da molti specialisti suoi colleghi. Di Benedetto inizia a “lavorare con professionisti già sensibilizzati sul tema, con la professoressa Laura Bertini, erano pionieri” racconta e ricorda che “la prima macchina di recupero del sangue fu donata al CTO dai Testimoni di Geova. Già pensavamo allora che tutte le tecniche di risparmio del sangue avessero dei benefici perché lo vedevamo sui pazienti”.

L’esperta spiega perché la letteratura nel tempo ha confortato le osservazioni cliniche: “Il sangue che noi immaginiamo come elemento quasi amorfo è un tessuto, anche se compatibile con il gruppo immunologico, e quando somministriamo al paziente un tessuto che non è il suo questo causa nell’organismo ricevente una reazione di immunodepressione che affligge l’evoluzione post operatoria. Numerosi lavori sui pazienti oncologici politrasfusi- aggiunge Di Benedetto- hanno mostrato una recrudescenze della malattia neoplastica e metastasi”. Dunque “non demonizzare le trasfusioni”, ma perseguire un atteggiamento di “appropriatezza” che possiamo inserire nella ormai consolidata concezione della medicina personalizzata. Una scelta che i paesi anglosassoni con il ‘patient blood management’ hanno adottato già da diversi anni, assumendo sulle trasfusioni “un atteggiamento restrittivo”. “L’anemia, dopo il mal di testa e il mal di schiena- sottolinea la professoressa- è la malattia che più affligge gli esseri umani, la sua gestione è quindi fondamentale anche implementando l’emoglobina con farmaci o con tecniche di recupero del sangue” durante l’intervento. La nota anestesista non si esime dal ricordare che sul sangue c’è anche un tema di economia: “Certamente si risparmia non facendo trasfusioni in modo liberale, dietro ogni sacca di sangue- spiega- c’è un mondo e il costo unitario è di circa 2-300 euro”.

Trent’anni fa “l’atteggiamento verso chi rifiutava il sangue, poiché la richiesta veniva da un gruppo religioso, era di pregiudizio annunciato” ricorda Di Benedetto parlando anche della “medicina difensiva” e ricordando che i medici comunque non avevano “ancora a supporto la letteratura scientifica che adesso è evidente”, puntualizza, ma “noi dobbiamo dire grazie e voler bene ai Testimoni di Geova perché senza il loro input e senza che si sottoponessero volontariamente a interventi con forte anemizzazione senza aver avuto problematiche importanti non avremmo potuto vedere trigger trasfusionali (indici di appropriatezza) molto più bassi di quello che pensavamo”, conclude.

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