La dichiarata irretroattività del raddoppio dei termini non consente in alcun modo di riaprire i “conti” della disclosure. I versamenti eseguiti vanno, infatti, ritenuti definitivi. È la conclusione a cui si giunge attraverso una rilettura complessiva delle disposizioni a riguardo anche alla luce delle ultime pronunce di giurisprudenza che hanno riaperto il fronte della decorrenza della norma sulla retroattività in relazione ai Paesi black list. Facciamo un passo indietro. La mancata indicazione nel quadro RW della dichiarazione dei redditi del possesso di attività finanziarie detenute all’estero fa scattare la presunzione di redditività delle somme e consente all’amministrazione finanziaria di raddoppiare i termini di accertamento (articolo 12 del Dl 78/2009). La dottrina e la giurisprudenza di merito maggioritaria hanno ritenuto che il raddoppio si può applicare solo dalle dichiarazioni relative all’anno 2009, mentre l’Agenzia ha sostenuto la tesi opposta Sul tema, la sentenza 2662/2018 della Cassazione (si veda «Il Sole 24 Ore» del 4 febbraio) ha stabilito che queste disposizioni non hanno valenza retroattiva Secondo la Suprema corte, infatti, una diversa conclusione «porrebbe il contribuente, che sulla base del quadro normativo previgente non avrebbe, ad esempio, avuto interesse alla conservazione di un certo tipo di documentazione, in condizione di sfavore, pregiudicandone l’effettivo espletamento del diritto di difesa, in contrasto coni principi di cui agli articoli3 e 24 della Costituzione». Il tema del raddoppio dei termini si è incrociato in modo significativo con la procedura di voluntary disclosure: dato che la definizione doveva riguardare tutte le annualità per cui non erano scaduti i termini di accertamento, i contribuenti hanno tenuto conto anche degli anni per i quali operava potenzialmente il raddoppio. L’effetto pratico è stato quello di rendere più costosa la procedura, data la necessità di allungare l’arco temporale di riferimento e quindi pagare imposte e sanzioni su anni ritenuti ancora “aperti”. Alla luce della sentenza, può in qualche modo essere rimesso il discussione il contenuto della domanda di disclosure, con la conseguente emersione del diritto di richiedere la restituzione di somme versate “in eccesso” proprio in relazione ai periodi di imposta più vecchi? La conclusione a cui si deve arrivare è negativa, dato che la definizione di un accertamento in adesione (tale era infatti la procedura di chiusura delle domande di voluntary disclosure) non è soggetta a revoca per una causa sopravvenuta non prevista dalla legge (Cassazione, sentenza 21413/2012) . La norma di legge (articolo 2, comma 3, del Dlgs 218/1997) prevede infatti che «l’accertamento definito con adesione non è soggetto ad impugnazione, non è integrabile o modificabile». Anche la sentenza 22558/2017 della Cassazione prende in considerazione questo aspetto, tra l’altro proprio in relazione alla richiesta di rimborso di maggiori sanzioni (rispetto a quanto dovuto secondo il contribuente) pagate per la mancata compilazione del quadro RW. Secondo la Suprema corte, «d’adesione alla definizione agevolata preclude al contribuente ogni possibilità di agire per l’accertamento dell’inesistenza del presupposto impositivo, giacché, in quanto volta a definire “transattivamente” la controversia in ordine all’esistenza di tale presupposto, la previsione di detta agevolazione pone il contribuente di fronte ad una libera scelta tra trattamenti distinti e che non si intersecano tra loro: coltivare la controversia nei modi ordinari; ovvero corrispondere quanto prescritto dalla disposizione agevolativa a definizione della controversia».
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