Stretta al contante tra evasione e disagio sociale

Stop al cash. Via alla moneta elettronica e basta alle transazioni occulte. La lotta al contante come freno all’evasione fiscale cessa di essere una vuota parola d’ordine per diventare prassi quotidiana. I problemi sollevati dal garante della privacy sul tema della violazione (in potenza o in atto) dei diritti individuali determinati dalla totale tracciabilità delle transazioni elettroniche vengono silenziati e derubricati a questioni di mero principio. In realtà quella della lotta al contante, considerato il veicolo più utilizzato dalla renitenza al fisco, non è un problema di oggi. Ricordare come è stato affrontato m passato può giovare a comprendere il problema nei suoi addentellati sociali e nei suoi riflessi sulla vita di ognuno di noi. Già nove anni fa, con il governo Monti e con l’articolo 12 del decreto Salva Italia (la legge 201 del 6 dicembre 2011) il problema era stato affrontato e (parzialmente) risolto. Come? Riducendo a 999,99 euro la soglia consentita per l’utilizzo del denaro contante. Allora lo si fece soprattutto a fini antiriciclaggio, cioè per ottemperare al decreto legislativo 231/2007 che recepiva la terza direttiva antiriciclaggio (oggi siamo già alla quinta). Per importi pari o superiori a mille euro si vietò anche il trasferimento, frazionato o meno, di cash, libretti di deposito bancarie postali al portatore o titoli al portatore in euro o in valuta estera, effettuati a qualsiasi titolo tra soggetti diversi, a meno che il trasferimento non avvenisse per ü tramite di banche, istituti di moneta elettronica e Poste italiane spa. Le misure erano certo severe, ma non prive di elasticità: il legislatore ammetteva che potevano anche verificarsi delle situazioni in cui esisteva la necessità obiettiva di operare al di sopra del tetto di 1.000 euro. Per esempio nel caso della badante o della colf che non ha un conto corrente e che deve ricevere uno stipendio di 1.100 euro, oppure del datore di lavoro che deve anticipare a un dipendente le somme per affrontare una missione in un Paese a rischio, o dell’armatore che deve consegnare al comandante della nave dei soldi per pagare i marmai. Tutti questi casi si risolvono facendo intervenire nel trasferimento un intermediario abilitato a cui chi eroga il denaro ordina di mettere a disposizione del beneficiario la somma in contante. Dunque registrandola.

Nell’applicare la norma nel corso del tempo emersero fenomeni al tempo stesso nuovi e allarmanti. Alcune indagini condotte dalla Guardia di Finanza nelle sue varie articolazioni(per esempio il Nucleo speciale di polizia valutaria) fecero emergere una prassi criminale ricorrente messa in atto da alcune catene di Money Transfer. Piazzando telecamere davanti ad alcuni punti al dettaglio i militari avevano verificato che, a fronte di poche decine di accessi di clienti al giorno, quotidianamente venivano effettuate rimesse verso l’estero spalmate su centinaia di persone per centinaia di migliaia di euro. Segno evidente che esistono organizzazioni in grado di disporre di immensi «serbatoi» di documenti d’identità falsificati, da utilizzare per una miriade di operazioni formalmente al di sotto della soglia normativa. E forse è stato proprio per questa ragione che, quattro anni più tardi (nel 2015) quando il governo presieduto daMatteo Renzi decise, con la legge di Stabilità, di triplicare la soglia per le transazioni in contanti portandola a 3mila euro, i money transfer vennero esclusi da tale beneficio. Non si può capire, però, ü grado di penetrazione del contante nell’economia se non si fanno i conti con i grandi numeri del sommerso, di cui il contante rappresenta il volano principale. A fronte dei dati dell’Istat (che fotografa dati ufficiali e, dunque, “blindati”) che parlano nel 2016 di un sommerso (la cosiddetta «economia non osservata») pari a 209 miliardi, esistono altri dati, dell’Eurispes, istituto di studi politici ed economici, che dicono altro. L’Eurispes, forte di una rete d
i analisti specializzati che spaziano dalla sociologia quantitativa, agli osservatori sulle agromafie, sulla criminalità organizzata e sull’evasione fiscale ipotizzata (e non solo accertata) è stata in grado di formulare proiezioni ben diverse. Il Pil «non osservato», secondo stime del 2011 (che secondo i suoi estensori resistono all’usura statistica del tempo) ammonta a oltre 540 miliardi. Per il Pil criminale invece la cifra si attesterebbe intorno ai 250 miliardi. Si tratta di una cifra pari quasi alla metà del Pil nazionale che, da sola, dovrebbe farci riflettere sulla penetrazione e la «vitalità» del contante nel sistema Italia. Per Gian Maria Fara, presidente di Eurispes e autore di alcuni saggi sul tema: «Il problema del sommerso e del contante che ne garantisce la sopravvivenza è concettualmente malposto. Contribuenti buoni e cattivi Abitualmente si divide l’universo dei contribuenti in buoni e cattivi, laddove i buoni sarebbero i lavoratori dipendenti (che non possono sottrarsi agli obblighi tributari) e i cattivi, i liberi professionisti (che al contrario si ritiene possano farlo). Ebbene non è affatto così». E Farà chiarisce: «Dai nostri studi è emerso che almeno il 35% dei lavoratori dipendenti sia oramai costretto a effettuare un doppio lavoro per far quadrare i conti e arrivare alla fine del mese. Questo significa che sono almeno 6 milioni i doppio lavoristi tra i dipendenti che, lavorando per circa 4 ore al giorno per 250 giorni, producono annualmente un sommerso di 91 miliardi di euro. Un calcolo analogo lo si può fare con gli immigrati clandestini per i quali si stima un sommerso di circa io miliardi e quelli con regolare permesso di soggiorno (12 miliardi). Inoltre a una contabilizzazione ufficiale sfuggono coloro i quali lavorano in nero (anche a tempo pieno) ma che hanno un reddito che esclude in forma tassativa qualunque attività di lavoro retribuito: mi riferisco – spiega Para- a pensionati, di anzianità o di invalidità che sono alcuni milioni. In Italia su 16,5 milioni di pensionati, circa 4,5 milioni hanno un’età compresa tra 40 e 64 anni. È plausibile – prosegue Farà ritenere che all’incirca un terzo di essi lavori in nero. A questo terzo si aggiungono altri 820 mila pensionati tra gli ultrasessantacinquenni che vanno a formare – secondo le nostre stime – i 2.320.000 pensionati italiani che producono lavoro sommerso. Ipotizzando che costoro lavorino per 5 ore al giorno con un compenso orario medio di 15 euro si ottiene un volume complessivo pari a 43,5 miliardi di euro». Aggiungendo a questo calcolo qualche categoria di «non censiti», si può arrivare a ipotizzare, per esempio che il contributo delle casalinghe (il cui numero si aggira intorno a 8,5 milioni) al sommerso (che si concretizza con lavoretti di baby sitting e lavori domestici extrafamiliari) potrebbe arrivare intorno ai 24 miliardi di euro. L’istat rileva inoltre una massa di 1,4 milioni di persone in cerca di occupazione che però, nel frattempo, debbono pure alimentare se e i propri cari. «Anche qui – sostiene Para – noi stimiamo che almeno il 50% di loro lavori in nero con una media giornaliera di cinque ore di lavoro per 200 giorni l’anno, arrivando a generare altri 12,6 miliardi di euro». Il quadro ipotizzato da Farà e dagli studiosi dell’Eurispes porta a un solo risultato: il sommerso (cosa ben diversa dall’economia criminale) e quello che ne consegue si è lentamente trasformato in una sorta di ammortizzatore sociale che fa da contrappeso a un’economia in flessione oramai da troppi anni e che consente a intere masse di persone di resistere a dispetto di ogni logica economica. Un fenomeno di proporzioni gigantesche, come si vede, che andrebbe risolto. Magari anche eliminando il contante. Ma forse pure con qualche riforma più strutturale.

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