In Italia più ombre che luci hanno caratterizzato sinora l’esperienza della previdenza complementare. Fattori esterni e interni ne hanno sicuramente influenzato lo sviluppo. In un Paese, infatti, dove la contribuzione alla previdenza pubblica è pari al 33% della retribuzione percepita (la più alta dei Paesi Ocse) qualsiasi altra forma di previdenza non avrebbe potuto che trovarsi in condizioni di difficoltà. Peccato che quel 33% così elevato di contribuzione sarà in grado di fornire un livello di copertura adeguato solamente in determinate situazioni (carriere contenute, pensionamento posticipato, lavoro regolare, eccetera). Per tutti gli altri, così come si era impostato nel 1992 con la riforma Amato, la differenza dovrà essere garantita dai fondi pensione. Le forme pensionistiche complementari, tuttavia, non sono entrate nei cuori dei lavoratori. Che in generale o non si iscrivono proprio (solo uno su tre) o non stanno risparmiando abbastanza o hanno comportamenti non responsabili sotto il profilo previdenziale (come la richiesta di anticipazioni, riscatti vari, eccetera). In un contesto del genere, l’applicazione della nuova direttiva Iorp2 dovrebbe stimolare un valido momento di riflessione per il settore. Diversi punti appaiono, infatti, di rilevanza fondamentale. Basti pensare, ad esempio, agli aspetti connessi con il sistema di governo dei fondi pensione, alla costituzione della funzione di gestione dei rischi, con la loro relativa valutazione interna, da estendere anche ai rischi operativi. Sicuramente una novità per il nostro Paese. Ma non solo: anche diverse delle politiche che la direttiva richiede non sempre erano state definite dai nostri fondi pensione. La politica di remunerazione degli organi, ad esempio, quella sui conflitti di interesse, sull’esternalizzazione dei servizi, sulla continuità dell’attività, sul monitoraggio nella politica degli investimenti dei fattori Esg (gli investimenti responsabili in sostanza), sulla comunicazione nei confronti degli iscritti eccetera. Sono tutte attività che i fondi pensione dovranno svolgere tendendo conto delle loro specifiche situazioni. In particolare, il comma 2 dell’articolo 4bis del nuovo Digs 252 stabilisce che il sistema di governo debba essere «proporzionato alla dimensione, alla natura, alla portata e alla complessità delle attività del fondo pensione». In sostanza, le stesse parole vengono ripetute al comma i dell’articolo gter per quanto riguarda la gestione dei rischi, confermando la rilevanza data dalla normativa alle questioni e la personalizzazione necessaria con riferimento a ciascun fondo pensione. Una serie di rischi, poi, dovrebbe essere specificamente monitorata. Tra i rischi operativi, quelli ad esempio di natura cyber, l’utilizzo delle tecniche assicurative, di mitigazione, eccetera. Un accenno particolare spetta al comma 5 dell’articolo 5ter, che richiede di effettuare una valutazione dei «rischi che gravano sugli aderenti e i beneficiari». I rischi, cioè, che si arrivi al pensionamento senza aver maturato una prestazione adeguata, che si sia scelta una linea di investimento troppo o troppo poco rischiosa, che eventi infausti possano produrre delle situazioni diffìcili nel corso dell’attività lavorativa, eccetera. I fondi pensione, del resto, dovranno svolgere il ruolo per il quale sono stati costituiti e se le risorse a questi destinati non risultano essere ancora sufficienti è bene che i lavoratori lo sappiano per tempo. A livello internazionale molti di questi rischi sono monitorati con tecniche sofisticate. Noi abbiamo due strade. Un’applicazione blanda e puramente formale della storia. Un’implementazione strutturata che tenga conto della multidisciplinarietà della normativa e che magari porti il settore a far di nuovo riflettere il Legislatore su alcune criticità riscontrate. A tal fine anche Covip avrà un compito determinante.
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