Il linguaggio dei bilanci

Alla ricerca di una sintesi

 

di Paolo Salvadori

Questo intervento non vorrebbe aggiungersi alla ormai vasta congerie dei saggi, dei convegni, dei manuali, dei testi, ma vorrebbe cercare di individuare una possibile sintesi tra due diversi culture contabili. Si tratta solo di un tentativo, ma che secondo me può essere portato avanti proficuamente.

Il titolo di questo articolo riprende quello di un’opera di Alberto Ceccherelli, Il linguaggio dei bilanci, su cui si sono formate generazioni di studenti di Villa Favard, come era allora chiamata la Facoltà di economia e commercio di Firenze, dal nome della splendida villa neoclassica adagiata sui lungarni ottocenteschi della città.

Si può dire che la cultura del commercialista fiorentino, ma non solo, è ben riassunta in quel testo che allora appariva insuperabile.

Molto più tardi sono apparsi gli Ias/Ifrs e la diversa cultura bilancistica che esprimevano. Salvo poche lodevolissime eccezioni la cultura del commercialista non ha tenuto il passo con questo nuovo modo di intendere il bilancio. Non che non vi siano colleghi che si profondono nella loro divulgazione, ma la cultura bilancistica degli Ias/Ifrs, rivolta essenzialmente alle grandi società ed alle società quotate, non è diventata una cultura diffusa della categoria come lo era quella ragionieristica, anche perché si tende a vedere gli Ias/Ifrs come principi del tutto contrapposti al tradizionale approccio proprio della cultura della maggior parte dei commercialisti italiani.

In realtĂ , al di lĂ  delle apparenze, gli Ias/Ifrs non sono altro che una specificazione dei piĂą tradizionali criteri di rilevazione, classificazione e valutazione delle poste di bilancio.

Gli Ias/Ifrs sono stati recepiti nel nostro ordinamento con il D.Lgs 28 febbraio 2005, n.38 e sono applicabili solo ad alcune categorie di soggetti. Per tutti gli altri valgono le norme del Codice civile.

Eppure, al di lĂ  di una diversitĂ  lessicale, gli Ias/Ifrs e la normativa civilistica si muovono sullo stesso piano, seppure seguendo principi apparentemente divergenti.

La prima di queste divergenze risiederebbe nel modo di intendere i principi generali della “chiarezza” e della “precisione”; in particolare nel modello civilistico, i principi analitici, vale a dire i criteri di valutazione dei beni, devono essere coerenti con i principi generali della “chiarezza” e della “precisione”.

Viceversa, seguendo gli Ias/Ifrs i principi analitici prevalgono sui principi generali ed il bilancio è “attendibile” solo se applica quei criteri.

Ma questa diversità, quando la si va a guardare concretamente, è meno intensa di quanto si creda, rispecchiando la differenza tra una cultura di stampo idealistico, la cultura europea, e quella empiristica del mondo anglosassone. La prima tesa ad unificare l’esperienza all’interno di un principio, l’altra a seguire i fatti per arrivare ai principi: una deduttiva, l’altra induttiva.

Le due concezioni della realtà, che si rispecchiano anche nei principi contabili, sono diverse riguardo all’approccio, ma molto meno per ciò che concerne i risultati.

Ritornando ora al tema da cui siamo partiti, il Codice civile prevede che: “Il bilancio deve essere redatto con chiarezza e deve rappresentare in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio”.

Con questa norma vengono introdotte le clausole generali della “chiarezza” e della “precisione”, cioè il principio di verità del bilancio. Ma questa verità non è assoluta e va intesa nel senso che un bilancio è vero quando applica correttamente i principi contabili codificati.

Orbene, gli Ias/Ifrs parlano di presentazione “attendibile” del bilancio che si ha quando vengono fedelmente rappresentati i fenomeni economici e lo sono se si applicano correttamente i principi contabili in essi contenuti.

In conclusione, il “quadro fedele” richiamato dagli Ias/Ifrs altro non è che la “correttezza e verità” della normativa civilistica italiana. Spesso ci si lascia confondere dalle parole e la diffusa anglofonia non aiuta.

Alla fine, le contrapposizioni tra i principi contabili europei e quelli di common law sarebbero le seguenti:

  1. tutela dei creditori contro la tutela degli investitori;
  2. principio del costo al posto del fair value;
  3. prudenza nella valutazione contro il mark to market;
  4. prevalenza della forma giuridica rispetto alla sostanza economica.

Tali differenze, si diceva, sono più apparenti che reali. Vediamo perché.

Il principio europeo che privilegia la tutela dei creditori invece che gli interessi degli investitori trova la sua ragione nella diversitĂ  delle fonti di finanziamento, che in Europa sono per lo piĂą rappresentate dalle banche, mentre nel mondo anglosassone dalla borsa.

Conseguentemente, la tutela dei creditori impone di valutare le voci di bilancio al minor tra il costo storico ed il valore corrente dei beni, seguendo il principio di prudenza, nel senso che nel bilancio si debbano iscrivere le perdite, ancorché presunte, mentre non si iscrivono gli utili, se non effettivamente realizzati. Pertanto, si registrano i ricavi solo se certi, mentre devono essere contabilizzate le perdite ancorché incerte. La tutela dei creditori presuppone dunque l’adozione del criterio del costo storico e del principio di prudenza nei termini sopra delineati.

Il criterio del fair value seguito nel mondo anglosassone richiede invece l’iscrizione in bilancio delle attività al loro valore corrente. Questo criterio acuisce la volatilità dei risultati economici, ora soggetti all’andamento dei mercati ed alle loro repentine mutazioni.

Quindi, con il criterio del costo storico si registrano nel conto economico le perdite presunte quando i valori correnti sono inferiori al costo, mentre non si registrano gli utili sperati se i prezzi correnti sono superiori ai costi sostenuti.

Viceversa, seguendo il criterio del fair value si debbono registrare anche gli utili sperati. Tuttavia, il criterio del fair value non riguarda le rimanenze dei beni di utilizzo corrente, che si valutano sempre con il criterio del costo, ma solo gli strumenti finanziari, che si iscrivono nel conto economico al valore corrente, solo però se destinati alla negoziazione. Come si può facilmente constatare le differenze concrete tra la valutazione al costo storico e la valutazione secondo i prezzi correnti, si riducono notevolmente e finiscono per riguardare solo una particolare classe di attività.

L’altra differenza riguarda la valutazione delle immobilizzazioni. Nel bilancio europeo devono essere soggette ad un sistematico ammortamento, mentre nel bilancio Ias/Ifrs si distingue tra beni a “vita definita” e beni a “vita indefinita”, e, cioè, essenzialmente i marchi e l’avviamento. Nel primo caso i beni sono soggetti ad ammortamento sistematico come nel modello europeo, nel secondo invece sono soggette a impairment test e cioè a revisione periodica; cosicché se l’avviamento persiste non deve essere effettuata alcuna svalutazione, se invece ha perso valore la perdita deve essere imputata al conto economico. Anche qui si tratta di un diverso approccio, ma non di grande rilievo; tra l’altro il nostro Zappa la pensava esattamente allo stesso modo.

Anche la cosiddetta prevalenza della sostanza sulla forma nei fatti non si traduce in una differenza apprezzabile.

In sintesi, nel modello europeo si predilige l’iscrizione in bilancio dei beni quando si trasferisce il diritto di proprietà, mentre nel modello Ias/Ifrs al passaggio della proprietà deve corrispondere anche il passaggio di tutti i rischi ed i benefici della cosa ceduta. Ma se poi si va a fondo e si esaminano i singoli Ias/Ifrs si vede subito che il momento preminente è quello del trasferimento del diritto reale, a cui d’abitudine segue il passaggio di tutti i rischi e benefici.

Infine, tra l’uno e l’altro modello vi sono differenze nella forma di rappresentazione ed una delle più importanti riguarda il conto economico che viene diviso in due parti: il Conto economico separato ed il Conto economico complessivo.

Nel primo confluiscono tutte le voci che figurano nel conto economico redatto seguendo il modello europeo e le uniche differenze riguardano la valutazione degli strumenti finanziari destinati alla negoziazione e la valutazione delle attivitĂ  immateriali a vita indefinita (marchi ed avviamenti) non soggette ad essere sistematicamente ammortizzate.

Al risultato del Conto economico separato vengono poi aggiunte le plusvalenze da fair value delle attività non correnti valutate al fair value. Si tratta insomma di una informazione buona per gli investitori che così, guardando il Conto economico complessivo, possono rendersi conto degli utili potenziali dell’impresa, anche se, tali utili non sono distribuibili.

In definitiva il Conto economico costruito secondo il modello europeo non differisce, se non per quanto riguarda la valutazione degli strumenti finanziari destinati alla negoziazione e dei beni immateriali (marchi e avviamento), dal Conto economico separato redatto seguendo gli Ias/Ifrs.

In conclusione, le differenze sopra rapidamente delineate sembrano poca cosa rispetto alle muraglie cinesi che si sono frapposte tra i due modelli di bilancio (quello europeo e quello Ias/Ifrs) ed addirittura appaiono insignificanti rispetto alle troppe parole che si sono spese su questo argomento. Uno sguardo più attento mostra, infatti, che le differenze non sono rilevanti e per lo più si tratta di differenze solo lessicali, accentuate dall’uso spesso snobistico ed inappropriato della lingua inglese.

Gli Ias/Ifrs, non sono codificati, nel senso che si attribuisce a questo termine, ma sono esplicativi ed articolati come un vero e proprio manuale. Essi si pongono rispetto ai principi di rilevazione, rappresentazione e valutazione di stampo europeo come si pone la specie rispetto al genere. Se si riuscirĂ  a guardare agli Ias/Ifrs da questo punto di vista si abbatterĂ  quella muraglia cinese che ancora oggi non consente di vedere la perfetta continuitĂ  degli Ias/Ifrs con il risalente approccio della tradizione ragioneristica italiana ed europea. Questo ha consentito a pochi, essenzialmente alle societĂ  di revisione, di ergersi a sacerdoti della materia, scalzando le competenze dei commercialisti. Occorre ora rioccupare i territori perduti, cominciando a guardare agli Ias/Ifrs nel solco della risalente cultura del commercialista.

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