Cibo, l’attivista dell’Amazzonia: “No all’agribusiness”

ROMA – “La vita tra le comunitĂ  native che abitano l’Amazzonia peruviana è molto peggiorata. Prima, grazie alle foreste, i fiumi e le terre avevamo tutto ciò che ci serviva. Ora scontiamo le conseguenze del disboscamento per estrarre legno da vendere e delle monocolture – come papaia, olio di palma, riso o foglia di coca. Fiumi e laghi sono intanto inquinati dalle miniere, legali e illegali. Non abbiamo piĂą i pesci di una volta. Non abbiamo abbastanza cibo e i nostri bambini soffrono di malnutrizione e anemia. Quando ci lamentiamo con il governo per impedire agli stranieri di sfruttare le nostre risorse, subiamo minacce. Abbiamo giĂ  avuto leader assassinati per aver lottato per i nostri diritti”. A parlare con l’agenzia Dire è Hilda Amasifuen Picota, attivista amazzonica del popolo shipibo, della regione peruviana di Ucayali. La sua denuncia arriva mentre, a 10.000 chilometri di distanza, presso il quartier generale della Fao a Roma, si apre la prima giornata dei lavori del Pre-vertice delle Nazioni Unite sui sistemi alimentari, un summit preparatorio in vista di quello di settembre con capi di Stato e di governo. Picota è anche presidente della Federazione ecologica degli artigiani shipibo dell’Amazzonia (Fecoasha) e ha aderito al Civil Society and Indigenous Peoples Mechanism, una rete che riunisce migliaia di produttori di cibo, popoli indigeni e consumatori in tutto il mondo. Questo movimento, denunciano i suoi responsabili, ha inviato proposte al Pre-vertice Fao – grazie al sostegno in Italia della onlus Terra nuova – senza però ottenere risposte.

Per questo ha deciso di non prendervi parte: sul banco degli imputati, la scelta di accordare spazio ai giganti dell’agribusiness, che starebbero cambiando le regole della produzione e del consumo a scapito delle popolazioni e dell’ambiente.L’attivista indigena continua osservando che spazi di dialogo come il Pre-vertice della Fao “sono momenti importanti per la societĂ  civile” e per questo “bisognerebbe ascoltare la gente per migliorare i sistemi alimentari”. E in patria, “neanche il governo del PerĂą ci tutela”, denuncia Picota: fa riferimento pure alla lotta contro il Covid, che “è costata la vita a tanti” e contro il quale la comunitĂ  ha dovuto auto-organizzarsi “curando i malati con le erbe mediche di cui disponiamo”.Oltre alla pandemia, pesa impossibilitĂ  per le comunitĂ  di registrare legalmente le proprie terre, col rischio di perderle. “Molte grandi societĂ  di agribusiness sono venute nelle nostre comunitĂ  per piantare papaya, riso, cacao, mais e altri prodotti” dice Picota. “Un altro problema è che impiegano fertilizzanti artificiali, che uccidono la terra e mette a rischio la biodiversitĂ : prima coltivavamo diversi tipi di colture e le piante producevano bene, ma ora non crescono piĂą allo stesso modo, hanno parassiti e malattie. Quello che raccogliamo non è sufficiente per nutrirci. Figurarsi vendere il surplus al mercato”. E così, lamenta Picota, ad esempio è sempre piĂą difficile trovare i semi di “huayruro”, pianta anche nota come “aymara”. Le sue bacche rosse sono usate dagli artigiani per creare collane e braccialetti in grado di portare fortuna al possessore tenendo lontano le energie negative: una fonte di reddito per tante famiglie.”Al governo chiediamo un fondo speciale per le comunitĂ  indigene che sostenga realmente gli agricoltori locali, in modo da poter garantire la nostra sicurezza alimentare” dice l’attivista. “Bisogna anche migliorare la capacitĂ  produttiva delle famiglie e potenziare le loro condizioni igienico-sanitarie”.
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