Previdenza in cerca di soluzioni durature

Come ogni settembre si ritorna a parlare di pensioni. Ovviamente. L’autunno è tempo di legge di bilancio e la spesa previdenziale è il piatto forte della spesa pubblica italiana. Nel 2022, la spesa previdenziale ammontava a 296,5 miliardi di euro, il 15,7% del Pil. Anche i problemi che si discutono in autunno sono ricorrenti: pensioni minime, età di pensionamento, contenimento della spesa previdenziale. Con l’aggiunta, dallo scorso anno, del tema dell’aggiustamento delle pensioni all’inflazione. Esiste una soluzione duratura a questi problemi che consenta al sistema previdenziale di non essere chiamato in ballo ogni anno? In fondo, di riforme strutturali ne abbiamo avute già un bel numero: Amato 1992, Dini 1995, Maroni 2004, Berlusconi2009, Fornero 2011. Per provare a fare un po’ di chiarezza, partiamo dalla spiacevole aritmetica del sistema previdenziale, ovvero dal vincolo di bilancio del nostro sistema a ripartizione. Ogni anno, per mantenere il sistema in equilibrio di bilancio è necessario che il totale della spesa erogata ai pensionati – almeno quella previdenziale – sia coperto dal totale delle entrate contributive versate da lavoratori e imprese. La spesa è costituita dal numero di pensioni erogate moltiplicato per la pensione media. Il totale delle entrate nelle casse è pari al numero di lavoratori moltiplicato per il salario medio e per l’aliquota contributiva totale pagata da lavoratori e imprese. Da ormai diversi decenni, l’andamento demografico crea uno squilibrio nel vincolo di bilancio del sistema previdenziale. L’invecchiamento della popolazione aumenta il numero di persone che arrivano all’età anagrafica (o ai requisiti) necessaria per percepire il beneficio previdenziale. Inoltre l’aumento della speranza di vita, concentrato soprattutto in tarda età, prolunga il periodo di godimento della pensione. All’inizio degli anni Sessanta, la speranza di vita media di un uomo di 65 anni era 13 anni e mezzo. Oggi è di 19 anni. A questo squilibrio hanno contribuito anche alcune scelte di politica economica, come l’introduzione del pre-pensionamento. Nel 1970, si andava in pensione in media a 65 anni, alla fine degli anni Ottanta a 62 anni, a metà degli anni Novanta a meno di 60. Per ultimo, la demografia ha un effetto avverso anche sulle entrate. Il calo della fecondità contribuisce a ridurre la dimensione delle coorti di giovani che entrano sui mercato dei lavoro e che pagano i contributi. Quali soluzioni sono compatibili con la spiacevole aritmetica del sistema previdenziale? Torniamo al vincolo di bilancio. Sarebbe di grande aiuto una crescita dei salari medi, che contribuirebbe ad aumentare il totale delle entrate contributive. Di fatto, in un ipotetico (favorevolissimo) scenario, la riduzione della forza lavoro dovuta alla demografia potrebbe essere compensata da un aumento dei salari. Purtroppo non è lo scenario in cui viviamo. Dai 2000 ai 2019, il tasso di crescita reale del Pii è stato attorno allo 0,2%. Bene tuttavia tener presente che la crescita economica aiuta anche la sostenibilità dei sistemi previdenziali. Si potrebbero aumentare le aliquote contributive. Lo si è fatto spesso in passato. Ma con un’aliquota contributiva previdenziale tra le più elevate al mondo (attorno al 33%), ulteriori incrementi non sono ipotizzabili. Sì potrebbe ridurre la generosità delle pensioni. Anche questo è stato fatto nelle riforme del passato, attraverso diversi meccanismi, ma con lunghi periodi di transizione, che hanno diluito nel tempo i vantaggi delle riforme. Ridurre ulteriormente la generosità delle pensioni future – quelle dei giovani di oggi – non è auspicabile. Non resta dunque che aumentare l’età di pensionamento. Accade già daila metà degli anni 90, in Italia e nella gran parte dei paesi Ocse. Non mancano tuttavia le proteste, come quest’anno in Francia contro !a riforma Macron. In Italia, l’età di pensionamento rappresenta il nodo cruciale della discussione autunnale sulle pensioni, almeno dalla riforma Fornero nel 2011. Perché questo argomento è così divisivo? Forse perché sull’età di pensionamento si scontrano due visioni spesso divergenti tra loro; la spiacevole aritmetica del sistema previdenziale e le aspettative delle persone. La spiacevole aritmetica ci dice che da lavoratori contribuiamo una parte del nostro reddito da lavoro e da pensionati riceviamo una pensione finanziata dai contributi sui monte salario dei lavoratori. Il rendimento che è lecito attenderci, a fronte dei contributi che abbiamo versato, dipende dunque dal tasso di crescita dei salari e del numero dei lavoratori. Economia e demografia. In funzione dell’età a cui andiamo in pensione e dalla longevità attesa, il montante contributivo costituito dai nostri contributi capitalizzati al tasso di crescita dell’economia è poi convertito nella nostra pensione. È ciò che prevede ii calcolo contributivo del nostro sistema previdenziale. Quali sono invece le nostre aspettative dei lavoratori? I più giovani probabilmente non hanno aspettative. Pienamente incardinati nel calcolo contributivo, con carriere lavorative spesso discontinue e bassa crescita salariale, i giovani non avranno scelta: saranno costretti a lavorare a lungo per potersi garantire una pensione decente. Ma chi oggi è vicino all’età di pensionamento ha avuto modo di osservare un mondo diverso, in cui le precedenti generazioni di pensionati hanno ricevuto un bei premio, rispetto all’ammontare previsto dal sistema contributivo. Un bonus pari in media al 47% della pensione contributiva per i pensionati del 1996, al 36% per quelli del 2000, al 25% per quelli del 2005. Forse i lavoratori vicini alla pensione si aspettano un trattamento (di favore) simile a quello ottenuto dalle generazioni precedenti. Si aspettano una riduzione dell’età di pensionamento, ma senza una corrispondente (e adeguata) riduzione della pensione. Vanno in questa direzione le tante misure provvisorie adottate dai governi di tutti i colori politici (centrosinistra, Lega-5 Stelle, 5 Stelle-PD, centro-destra) e non (Draghi) per garantire flessibilità agevolata in uscita dal mercato del lavoro: APE sociale, Opzione Donna, Quota 100, Quota 102, Quota 103. Queste misure provvisorie rispondono alle esigenze dettate dalla demografia poiitica che aumenta ii peso politico di lavoratori anziani e pensionati con l’invecchiare della popolazione. Tuttavia costano: 23 miliardi in tre anni per Quota 100. Creano distorsioni: Quota 100 ha lasciato uno scalone di cinque anni. Generano persistenza: una quota tira l’altra. Ma soprattutto non risolvono il problema di fondo: garantire una flessibilità in uscita che sia economicamente sostenibile, ovvero che rispetti la spiacevole aritmetica del sistema previdenziale. Ogni autunno, si presenta la necessità di introdurre flessibilità nell’uscita dai mercato del lavoro. La chiedono i sindacati, le imprese, i singoli lavoratori. La promettono alcune forze politiche, il sistema contributivo ci consente di calcolare ia pensione corrispondente ad ogni età di pensionamento e di valutare il costo di ogni anno di anticipo. Anziché gettare sempre la palla in tribuna con misure temporanee che rispondono a incentivi politico-elettorali di breve durata, sarebbe utile aprire un dibattito informato sui costi delle flessibilità. L’esperienza di Opzione Donna mostra che alcune lavoratrici sono state disponibili a pagare ii costo della flessibilità e di uscire dal mercato dei lavoro con il ricalcolo della pensione con il sistema contributivo. In altri casi parte del costo potrebbe essere a carico dello stato – come nel caso dell’APE Sociale – o delle imprese che scelgono di incentivare ipropri lavoratori a usare la flessibilità. I sindacati potrebbero argomentare che calcolare ie pensioni usando un’età di pensionamento e una longevità attesa uguale per tutti è iniquo e regressivo, poiché le persone più benestanti e istruite tendono a vivere più a lungo. E chiedere dei correttivi. Il dibattito autunnale sulle pensioni non deve per forza essere terreno di battaglia per bandierine ideologiche.

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