Occupazione, l’Italia tra luci e molte ombre

A giugno 2023 l’Italia segna il record di tutti i tempi per il numero di lavoratori con 23 milioni e 590mila occupati e un tasso di occupazione del 61,5%, mai raggiunto prima. Da due anni, a partire dal dopo COVID-19, i dati Istat sul mercato del lavoro vengono accompagnati dalla parola record. Non solo, contrariamente a quanto sostengono talune forze politiche e sindacali sul “lavoro precario”, si tratta oltretutto di un’occupazione di buona qualità, che vede diminuire i contratti a termine (-1,9% rispetto allo scorso anno) e aumentare sensibilmente quelli stabili (+2,6%).

È quanto emerge anche dall’ultimo Osservatorio sul mercato del lavoro a cura del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali. Rispetto al mese di febbraio 2020, gli occupati a tempo indeterminato sono aumentati di 690mila unità ma l’aumento del tasso di occupazione a tempo indeterminato risente negativamente della crescente difficoltà delle imprese nel reperire profili professionali coerenti con i fabbisogni della produzione, pari ormai al 47% della domanda delle imprese (indagine Excelsior per il terzo trimestre 2023); difficoltà che potrebbero ridursi solo con interventi di politica attiva, rivolti ad adeguare le competenze dei potenziali lavoratori,  e diminuendo dall’altra parte le politiche passive di stampo assistenzialista. Senza essere tacciati di catastrofismo, vale allora la pena guardare con maggiore precisione a questi numeri, che sono senz’altro positivi, per comprenderne il reale significato, sia in chiave prospettica, con uno sguardo rivolto all’outlook sui prossimi mesi, sia nel confronto con il resto d’Europa.

Tanto per cominciare, il nostro Paese continua a essere fanalino di coda in UE. Per tasso di occupazione globale, dove persino la Grecia si posiziona più in alto con il 61,8% (70,5% la media UE, addirittura oltre il 75% Paesi come Germania, Svezia, Paesi Bassi o Danimarca); per occupazione femminile (52,2%, anche qui leggermente peggio della Grecia a quota 52,8%, contro il 65,6% della media europea); per occupazione giovanile (15-24 anni), dove l’Italia è quartultima tra i 27 Paesi UE (20,5% contro una media del 35,3%). Solo poco meglio l’occupazione senior (55-64 anni)dove riusciamo quantomeno a superare Lussemburgo, Romania, Grecia, Croazia, Slovenia e Malta, pur restando distanti dalla media europea (57% la percentuale nazionale, 63,8% il dato UE). Altro che natalità o inverno demografico! Difficile immaginare di ridurre la povertà o di garantire la sostenibilità del nostro sistema di welfare se solo poco più della metà delle persone tra i 55 e 64 anni lavora e la differenza tra chi è in età da lavoro e chi lavora effettivamente è di quasi 15 milioni di persone (2,6 milioni di disoccupati e 12,3 milioni di inattivi).

Con queste premesse, cosa aspettarsi allora dai prossimi mesi? Indicatori macroeconomici e scenari geopolitici inducono a prevedere un ulteriore rallentamento della crescita, mentre il contributo finora sostanzioso del comparto costruzione ha ormai esaurito la sua spinta (-4,3% da inizio anno), come pure, per ovvie ragioni stagionali, anche quello del settore turistico e del comparto agricolo. Tutti fattori che potrebbero impattare negativamente sulla situazione occupazionale da qui alla fine dell’anno. Già a luglio, infatti, i dati segnalavano una diminuzione di occupati di circa 60mila unità, in prevalenza contratti a termine conclusi, rispetto ai quali ad agosto si è verificato un recupero quasi totale perché, se il mese di luglio cominciava a risentire del rallentare della produzione industriale, da cui il mancato rinnovo di molti contratti temporanei giunti a termine, quello successivo ha beneficiato del traino dei settori ad alta stagionalità, come appunto il turismo. Ecco allora che risulta altrettanto verosimile che, salvo miracolose inversioni di tendenza dell’economia, tra settembre e ottobre, la gran parte dei contratti a tempo determinato (per lo più stagionali) in scadenza non verranno rinnovati. Potrebbe dunque di riflesso verificarsi un nuovo calo degli occupati.

D’altra parte, però, merita attenzione un altro indicatore, forse oggetto di eccessivo entusiasmo: la caduta del tasso di disoccupazione che, ad agosto, cala al 7,3%, recuperando in sostanza i livelli ante crisi del 2008. L’analisi dei numeri assoluti suggerisce che questo dato sia determinato, da un lato, dall’aumento – virtuoso – di quasi 60mila occupati, ma dall’altro anche dall’aumento – vizioso – di 5mila unità degli inattivi; valore quest’ultimo in crescita per il secondo mese consecutivo, dopo un lungo periodo di calo contestuale all’aumento dell’occupazione stabile. È probabile che tra settembre e ottobre anche questo indicatore peggiori, in mancanza di significative novità nel ciclo economico. E, allora, sarà necessario fare riflessioni più impegnative, a partire dalle politiche attive e dal fenomeno del mismatch, che si interseca senza dubbio sia con un sistema di istruzione-formazione da riformare e orientare maggiormente alle esigenze del mercato del lavoro sia con il fenomeno dei NEET, i giovani che non studiano né lavorano. Altro dato da record in Italia, ma questa volta in negativo, in quanto di gran lunga peggiore tra quello delle economie avanzate europee.

Certo, permane il problema dei redditi da lavoro che hanno perso potere d’acquisto. Per rendere più “appetibile” il lavoro servono più cultura di responsabilità e senso del dovere e meno spesa assistenziale, che ha ormai raggiunto gli 8 punti di PIL superando quella sanitaria. Ha ragione il CNEL: non serve il salario di 9 euro. È giunta l’ora che imprese e parti social  rinnovino per tempo i contratti nazionali scaduti da anni e diano il via a una nuova stagione di contratti aziendali e territoriali, gli unici in grado di migliorare i redditi: altro che la decontribuzione! Misura che costa 11 miliardi l’anno e affossa i conti dello Stato e dell’INPS.

Alberto Brambilla, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

 Claudio Negro, Fondazione Anna Kuliscioff e
Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali

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