Gli approfondimenti sulla previdenza di PAOLO LONGONI.
Il sistema pensionistico italiano si fonda sul patto fra generazioni, e sul principio della ripartizione, di cui abbiamo già trattato in interventi precedenti.
La stabilità del sistema, in presenza del calo demografico e del peso di prestazioni troppo generose erogate in passato, ha richiesto (e forse richiederà ancora) l’elevazione dell’età di pensionamento, la modifica dei sistemi di calcolo, la sostanziale riduzione delle pensioni future.
La possibilità di attivare una forma di previdenza integrativa complementare alla pensione che si attende dall’assicurazione sociale obbligatoria potrebbe costituire una contromisura utile per raggiungere una rendita migliore.
E spesso ci si pone la questione se non convenga ridurre al minimo la contribuzione obbligatoria alimentando invece i fondi volontari complementari.
L’alternativa è spesso declinata con: “Mi conviene versare un’aliquota più alta di contributi alla Cassa di previdenza, oppure versare il minimo e accendere un fondo pensione?”
Ebbene, la risposta giusta non c’è: occorre però che la scelta venga operata tenendo conto di diversi fattori spesso non del tutto chiari, sui quali è opportuno meditare.
È noto che i fondi pensione sono di diversa natura (chiusi – riservati a specifiche categorie -, aperti – ad adesione consentita a tutti -, piani individuali pensionistici – gestiti in forma individuale ed offerti come prodotto da banche ed assicurazioni).
Il primo elemento da considerare è che ogni piano di pensione integrativa ha costi di gestione, costi di ingresso e costi di uscita; e dunque si deve considerare che parte delle somme versate saranno assorbire dalle spese.
I contributi versati ai fondi di pensione integrativa sono integralmente deducibili dal reddito fino alla soglia massima annua di 5.164,57 euro, ma la deducibilità è concessa solo se si rimane nel fondo almeno per cinque anni; si dovrà dunque tenere conto del “dividendo” derivante dal risparmio fiscale, che è però uguale a quello che deriva dai versamenti di contributi obbligatori.
Nell’operare la scelta del fondo si dovrà avere cura di accertare quale sia il comparto nel quale le somme vengono investite (obbligazionario, azionario, misto) e della eventuale garanzia di restituzione del capitale in presenza di rendimento negativo o nullo.
Sottoscrivendo il fondo pensione, si terrà anche conto della possibilità di ottenere una rendita vitalizia (che cessa al momento della morte) ovvero una rendita reversibile (che in caso di morte viene liquidata al beneficiario indicato nel contratto); ma il rendimento promesso da un fondo a rendita reversibile è sempre più basso di quello offerto se la rendita è vitalizia: e ciò per il motivo ovvio che la durata media di una pensione nel nostro Paese è di circa 16,5 anni; ma se c’è reversibilità la durata supera di qualche decimale i 21 anni.
I contratti possono prevedere la restituzione del montante agli eredi in caso di premorienza (ma anche questa è una garanzia di tipo assicurativo che ha un costo), mentre in generale non è consentito al beneficiario di ottenere a scadenza il capitale versato in sostituzione della rendita; alcuni contratti prevedono che, se la rendita ottenibile dal 75% del montante versato è minore della pensione sociale, sia possibile ottenere la liquidazione del capitale.
La pensione integrativa non dà garanzie sulla perdita di valore in caso di inflazione (mentre la pensione derivante da assicurazione obbligatoria è oggetto di perequazione annua): gli incrementi del capitale versato dipendono soltanto dai rendimenti ottenuti sul mercato finanziario.
La tassazione della rendita derivante da pensione integrativa è di indubbio vantaggio: sconta l’aliquota fissa del 15% che si decrementa dello 0,30% all’anno per durate di versamento superiori a 15 anni, fino ad un minimo del 9%; mentre la pensione da assicurazione sociale obbligatoria sconta l’aliquota Irpef ordinaria, che oggi va dal 23 al 43%.
Infine, i coefficienti di trasformazione del montante accumulato in rendita possono variare a seconda del soggetto che gestisce il fondo; spesso più bassi rispetto a quelli dell’A.G.O.
Il coefficiente di trasformazione è la grandezza utilizzata per la determinazione dell’importo annuo della pensione, quale percentuale del montante contributivo individuale nozionale formato dai contributi versati. È determinato su base statistica e varia in funzione dell’età anagrafica, in quanto tiene conto della speranza di vita media e conseguentemente del numero di annualità, in termini attuariali, in cui il montante contributivo sarà corrisposto al pensionato; e mentre le tabelle dell’A.G.O. sono pubbliche e note a tutti, quelle contenute nel contratto di adesione al fondo complementare dovranno essere oggetto di esame attento prima della sottoscrizione.
Fatte tutte queste valutazioni e avuta attenzione a quanto segnalato, sarà cura di ciascuno decidere se aderire a fondi complementari ovvero incrementare l’aliquota di versamento dei contributi obbligatori: nella prospettiva di migliorare il tenore di vita al momento del pensionamento.