L’appello del rifugiato a Rafah: “Italia aiutami a tornare”

ROMA – “Aiutatemi a uscire da Gaza”: questo l’appello che Majed Al-Shorabji affida all’agenzia Dire da Rafah, città in cui da giorni sembra imminente l’attacco dell’esercito israeliano. Palestinese di 26 anni, da cinque risiedeva in Italia dopo aver ottenuto lo status di rifugiato, grazie al quale era riuscito a farsi assumere con un contratto a tempo indeterminato da un’azienda metalmeccanica di Fidenza, in provincia di Parma. Nella foto profilo di Whatsapp, l’uomo indossa una t-shirt con rappresentata la mano di Dio che sfiora quella di Adamo del celebre affresco di Michelangelo nella Cappella Sistina. Durante la chiamata con la Dire dà prova di un buon italiano, ma la conversazione è resa difficile da una connessione internet instabile. “Israele ha tagliato le linee- dice- e ho dovuto acquistare una e-sim da 20 euro, che però non funziona con tutti i Paesi”. La connessione è tra i beni essenziali limitati o negati da Israele a seguito degli assalti armati di Hamas del 7 ottobre, come acqua, cibo, energia elettrica e carburante.

“A settembre”, continua Al-Shorabji, “mio padre ha subito un attacco cardiaco, e così ho deciso di tornare a casa”. Dopo qualche giorno Al-Shorabji rientra a Gaza con sua moglie, ma poi a ottobre scoppia la guerra e la coppia resta bloccata. Da allora, inutili le tante email al consolato italiano a Gerusalemme e all’Unità di crisi della Farnesina per chiedere aiuto: come rifugiato, l’uomo gode di tutti i diritti all’assistenza diplomatica ma per uscire dalla Striscia ha bisogno del visto, che possono concedere solo le autorità di Israele ed Egitto. Per questo fa appello al governo Meloni e ai media: “Aiutateci. Da due mesi non mangiamo altro che mangime per animali e ci stiamo ammalando“.

L’uomo racconta che da quando è nella Striscia “abbiamo rischiato la vita già tante volte. La prima, quando la nostra casa è stata bombardata“, nel nord, la zona dove inizialmente l’esercito israeliano ha concentrato i raid, e da cui la famiglia Al-Shorabji è dovuta fuggire. “Ci siamo dovuti adattare a vivere in una scuola dell’Unrwa“, dice il 26enne, riferendosi alle scuole gestite dall’Agenzia Onu per i profughi palestinesi, che ha messo a disposizione gli edifici scolastici per le decine di migliaia di sfollati palestinesi. Ma presto gli attacchi raggiungono anche la scuola-rifugio: “Siamo stati assediati e mio padre ha rischiato di morire”.

I profughi saranno costretti a lasciare anche questo edificio, spostandosi in sistemazioni d fortuna: “Più di una volta siamo rimasti intrappolati per più di una settimana senza acqua né cibo” denuncia Al-Shorabji, “poi siamo fuggiti all’ospedale Al-Shifa“, il più grande della Striscia. La famiglia fortunatamente lo lascerà prima dell’assedio di due settimane dell’esercito israeliano, tra marzo e aprile, terminato con un incendio che ha devastato l’intero complesso. I soccorritori palestinesi fino alla settimana scorsa hanno trovato fosse comuni nel cortile dell’ospedale. Tra i corpi, anche i pazienti uccisi nei raid, riconosciuti per via dei cateteri ancora alle braccia.

Oggi, lamenta Al-Shorabji, “soffriamo di varie malattie a causa della mancanza di cibo e medicine. Maciniamo il mangime per gli animali per fare il pane- dice- perché è finita la farina di ogni genere. Non voglio morire di fame o sotto le bombe”. L’uomo continua a ricevere ogni mese l’accredito dello stipendio dall’azienda di Fidenza, ma da Gaza non ha accesso al conto corrente bancario italiano per prelevare il denaro. Per questo sulla piattaforma www.gofundme.com ha lanciato una raccolta fondi per l’acquisto di generi alimentari e di base, che ad oggi ha di poco superato i 200 euro. Ma i soldi a Gaza non servono solo per cibo e medicine: “Se vuoi entrare in Egitto senza visto, ti chiedono di pagare fino a 5mila dollari” denuncia, rilanciando il suo appello: “L’Italia intervenga, ci serve il visto per raggiungere l’aeroporto del Cairo“.

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